Tratto-Macelleria Vivarelli. L'elegante intelligenza di un macellaio - di Gianluca Donadini
Cagliari è una città vivace. Ha un inverno mite che alle mie latitudini prealpine già si chiamerebbe un anticipo d’estate. Si atterra all’aeroporto di Elmas bevendosi il mare, planando sullo stagno di Santa Gilla con la città dispiegata ad attendere i visitatori. Monte Urpino, Stampace, Casteddu ‘e susu protetto dalle mura spagnole e dal Bastione di Saint Remy, emergono dalle case disordinatamente ordinate come in tutte le città di mare. Qui a Cagliari, come ci ricorda Lawrence, più si sale alla Cattedrale più sono mirabilmente addossate, accatastate le una alle altre, nude, assolate, quasi divorate dalla luce del sole. E non stupisce che Cagliari sia una città luminosa faticosa da visitare e che nella fatica della visita ai suoi nove colli si concentri il gusto di comprendere appieno la costruzione della città. Una città ora torta e ritorta che si ritrae in segno di protezione dal mare, asserragliata dallo Scirocco e dal Maestrale, ora rilassata in ampi viali. Si cammina molto se si vuole entrare in contatto con l’anima più vera della città che solo la velocità del passo può restituire nella più viva ricchezza di particolari: un portone, un murales, uno scorcio da un belvedere che apre sui tetti, una porta monumentale, il rumore della vita che scorre mai uguale. Ho imparato da tempo l’importanza di visitare a piedi le città che non conosco. Si prende così il passo urbano più adatto alla visita, ora corto e regolare e per questo appropriato alla salita ora più leggero e consono alla discesa, lasciandosi alle scale, ai portici, agli stretti vicoli, ai passeggi dei lungomare, all’osservazione di palazzi signorili e chiese, botteghe artigiane e negozi etnici, mercati, ristoranti gourmet e trattorie, bascius rimodernati e case popolari dove la vita è arzigogolata, combattuta, caotica e arrangiata, cresciuta storta per i colpi di vento e di marea che il destino sa dare. E nel cammino è il respiro che modula l’affanno, gestisce il cuore e il suo battito, regola l’osservazione e dà il passo all’emozione. Solo camminando si metabolizza una città che cambia, i grandi e i piccoli mutamenti che la storia impone all’urbanistica fatti di passaggi graduali o di svolte dialettiche improvvise e stridenti. Solo camminando si può apprezzare la ricchezza sociolinguistica della città che alla varietà campidanese tipica dell’area associa quelle dei sardofoni che si sono trasferiti nel capoluogo per lavoro. E in una città di mare, odorosa per definizione, ci si può perdere ad annusare come fossimo degli aromatieri pronti ad attingere da tante boccette di profumo quante le sue vie incuriositi dal riconoscimento degli odori del porto con i suoi rumori di sirene e antichi cordami, dell’onda aperta del mare al Poetto con il suo leggero frusciare sulla sabbia morbidissima e il vento che agita gli stabilimenti balneari, delle pinete resinose di Monte Urpino, della bellezza carnale e sapida del mercato del pesce di San Benedetto, di un piatto di arselle, di una seadas, di un pecorino così umani nel concerto di un mare che entra fin nel quartiere di Marina con i palazzi monumentali di Via Roma, i portici belli per una colazione e i caruggi intricati e multietnici che salgono in un reticolo di bronchi e bronchioli a portare la sapidità del Tirreno fino ai piedi del rione Castello in un respiro ampio e profondo attraverso un dedalo di vicoli che sbuca in Piazza Costituzione che è centro e cuore, snodo per Stampace, Villanova e Casteddu e susu e la salita a piazzale Umberto I.
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Walter Vivarelli, sardo, ha 59 anni e uno sguardo aperto che non ha paura di incrociare gli occhi della persona con cui parla. Ha un suo fascino, Vivarelli, che del macellaio non ha il phisique du role ma il piglio e la sicurezza e una garbata educazione che riflette nella parola a volte elegante, a volte asciutta, e uno stile dell’eloquio che sorregge l’affabulazione con naturale padronanza. E nel dialogo Vivarelli si concede raccontandosi senza falsità o dietrologismi, pur mantenendo un pudore frutto dell’eleganza di una persona che vive con cura. E la cura con cui ci si educa alla vita e con cui si educano le vite di chi si alleva fin dalla nascita sono un trademark di distinzione. Dettano i tempi e i modi con cui impariamo ad esprimere quello che in fondo siamo. Mostrandoci per quello che siamo, rivelandoci grazie a quello che facciamo. Niente a che vedere con Vincent, il macellaio interpretato da Fabrice Eboue in Barbaque, movie dell’irriverente cinematografia francese, alle prese con la vendita di prosciutto millantato come iraniano e invece fatto in Francia con carne molto umana per sbancare il lunario con la sua macelleria. Perché la filosofia di Vivarelli è quella della cura e del rispetto degli animali che alleva, dei tempi di crescita, della sacralità dei pascoli di una Sardegna rurale che è madre primigenia, vera, forte, vitale.
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Lo incontro nella sua tratto-macelleria di Via Torino in una giornata di inizio febbraio di ritorno da Villanova che mi ha fagocitato con l’umanità carnale e estroversa dei suoi abitanti. Mi accoglie nello stretto locale costretto da un bancone essenziale per l’esposizione delle carni, dei salumi e dei formaggi e da qualche bottiglia di vino in bella mostra sui ripiani a muro. Come in tutte le macellerie si può acquistare direttamente per l’asporto ma da Vivarelli si può chiedere che la carne scelta sia preparata nella cucina della trattoria che Walter ha aperto nei vecchi magazzini dello stabile. Oppure ci si affida completamente alla brigata e si lascia fare secondo le proposte del menu. Bisogna per questo oltrepassare la macelleria, l’attraversamento è d’obbligo come fosse un’iniziazione, scendere pochi gradini, entrare nell’emporio ora trasformato in un semplice locale in pietra calcarea a vista, accomodarsi a un tavolo e affidarsi. E se andare dal macellaio è una tradizione di tante famiglie per le quali l’acquisto in una bottega di alimentari è impreziosito dalla speciale relazione col bottegaio che è confidente, confessore, fiduciario di un rapporto di lealtà che sfiora l’amicizia, meno consueto è affidarsi a una macelleria per i servizi di ristorazione benché sia dai macellai di fiducia che nascono le basi della nostra cucina. In fondo Vivarelli fa quello che tutti noi facciamo: andare personalmente dal fornitore più fidato per selezionare con cura le materie prime di migliore qualità per ognuno dei piatti del menu. E chi più di Vivarelli ristoratore può conoscere quanta fiducia meriti il Vivarelli macellaio allevatore quando diventa fornitore di una cucina.
Intervista
Chi è Walter Vivarelli? – Io sono un umile macellaio. Abbiamo una macelleria di famiglia che ha 60 anni di storia. Partì mio padre con un box al mercato di Iglesias negli anni Cinquanta. Dal 1966 si è trasferito nella sede storica di Via Bosco Cappuccio, nel popoloso quartiere di San Michele a Cagliari. Nel 1990 assumo la gestione della macelleria. I miei zii, cosi come alcuni dei miei cugini, sono tutti macellai e hanno negozi sparsi nel Sud della Sardegna.
Di suo padre cosa mi dice? – Mio padre era figlio di un minatore emigrato dalla Val d’Orcia. Lo definirei una persona coraggiosa e tenace. Morì che avevo pochi anni, nel 1973. Mia madre continuò la sua attività. Io sono cresciuto in bottega e mi sono appassionato fin da piccolo al mondo della carne. Poi sono dovuto partire perché quando si è giovani casa sta stretta. Ma sono tornato.
Nella vita si emulano i padri. – Fin da piccolo giocavo al macellaio. Avevo un coltellaccio del tutto spuntato affidatomi da papà e con questo mi dedicavo alla pulizia delle ossa.
Un mondo complesso quello della carne. – Assolutamente. Purtroppo il mondo della carne non viene valorizzato appieno perché l’animale non è apprezzato nella sua totalità. Vorremmo che fosse tutto il solito filetto, le solite bistecche. La bellezza dell’animale è invece da ricercarsi nelle sue tante parti, quelle più note e quelle meno famose. Perché non farlo degustare nella sua interezza?
Per poterlo fare ci sarebbe bisogno di conoscenza e di voglia di approfondimento. Forse siamo in un periodo storico dove c’è molta superficialità e qualunquismo. Si seguono mode. – Considerando che ho una filiera completa dal campo alla stalla, dalla macelleria al tavolo, e ho quindi una profonda esperienza del settore carni come produttore e trasformatore, le posso dire senza presunzione che tutte le parti anatomiche del bovino hanno caratteristiche appropriate per essere impiegate in cucina, ognuna adatta a modo suo alle diverse cotture e ai diversi periodi dell’anno. Anche la guancia, la coda, la lingua e la trippa lo sono. O la punta di scamone, il cappello del prete, la copertina di spalla. Il quarto anteriore ha tagli che possono essere valorizzati ben oltre un brodo o uno spezzatino ma vengono spesso sottovalutati e ignorati. Ma è proprio grazie a questa molteplicità di forme che posso passare dal crudo (tartare, carpaccio, battuta a coltello), alla griglia (arrosto, costate, fiorentine, tagliate), al tegame o alla pentola (stufato, brasato, spezzatino, bollito), allo stracotto (filone del reale, campanella, varie parti del quarto anteriore), ai carré frollati da 30 a 70 giorni. Un passaggio, questo, che dipende dal taglio, dall’animale, dalla sua razza, dall’età, dall’allevamento. Se ben allevata anche una vacca femmina a fine carriera può dare carne che a seguito di una lunga frollatura può esprimere una complessità aromatica unica.
Lei è noto per promuovere carni bovine pregiate di razze autoctone sarde. – Alleviamo e macelliamo con Gianluigi Liscia solo capi di razze autoctone: la Sardo Modicana (bue rosso) e la Sardo Bruna (melina). Diamo voce quindi alle nostre razze.
Quali sono le principali differenze tra le due razze? – La razza Sardo Bruna deriva dall’incrocio di assorbimento e dal successivo meticciamento selettivo fra tori Svitto di razza Bruna Alpina e vacche della popolazione autoctona della Sardegna settentrionale. E’ un bovino a duplice attitudine carne-latte che nasce originariamente nel territorio del Logudoro. Ha mantello grigio sorcino di varia tonalità, più scuro nei maschi e più chiaro nelle femmine. La Sardo Modicana nasce invece nel 1870 nel territorio del Montiferru dall’incrocio della vacca sarda con tori di razza Modicana provenienti dalla Sicilia. E’ una razza forte a triplice attitudine lavoro-latte-carne.
Quali sono le differenze sensoriali delle carni? Glielo chiedo visto che è giudice qualificato dell’Istituto Nazionale Degustatori di Carne. – Ti posso dire che la Sardo Modicana è più magra della Bruno Sarda che ha una fibra muscolare più grossolana e un grasso distribuito all’esterno del muscolo. La Sardo Modicana è più sapida.
Che tipo di alimentazione seguite? – Prevediamo la somministrazione del latte materno sino allo svezzamento e, in seguito, il pascolo o la stabulazione libera con una eventuale integrazione di foraggi freschi e/o affienati provenienti da prati naturali, erbai e da coltivazioni erbacee tipiche della zona, con una possibile stabulazione fissa e l’utilizzo di mangimi per l’ingrasso e il finissaggio.
Allevandole contribuisce quindi al recupero di queste razze. – Dall’Ottocento fino agli anni ‘60 del Novecento la razza Sardo Modicana ebbe una certa diffusione in tutto il territorio regionale della Sardegna e del Montiferru in particolare. Solo dopo, con la meccanizzazione in agricoltura e l’introduzione di razze cosmopolite specializzate nella produzione di latte, questa specie diminuì notevolmente di numero per sopravvivere nelle aree collinari e montane dell’Alto Oristanese, dove oggi se ne tenta, con grande sforzo, il recupero.
E contribuisce in qualche modo anche alla conservazione del paesaggio. – L’animale al pascolo mitiga la desertificazione, l’erosione del suolo, la perdita di biodiversità. Una vacca sarda, che è di piccole dimensioni e ha un comportamento alimentare simile ai caprini, quando si ciba nella macchia di cespugli porta altrove i semi con le feci. Rilascia e riporta nel sistema biodiversità. Cosi la vacca sarda modella i nostri pascoli.
Il pollame? – Non fa molta strada. Viene da I Mudu a Ussana dove si allevano i polli senza mangimi di origine animale secondo un protocollo certificato antibiotic-free.
E per i maiali? – Alleviamo il suino meticcio sardo che deriva da incroci di diverse razze da carne tipicamente utilizzate negli allevamenti italiani. E’ un maiale che presenta tracce genetiche del cinghiale che danno al fenotipo caratteristiche striature e colorazione delle setole fin dai primi giorni di vita. Spesso non viene valorizzato benché sia un patrimonio culturale storico meraviglioso. Nel mio menu faccio degustare il suino in diverse presentazioni. Anche la filiera del suino è di mia produzione quindi do accesso a tutte le parti dell’animale.
Quali sono le caratteristiche delle sue carni? – La sua crescita è lenta se paragonata a quelle di un comune “maiale commerciale”. Sono carni sapide e compatte stimate per la qualità. Sono più scure e hanno un sapore più intenso. Sono ottime se consumate fresche, alla griglia, in forno o trasformate in salsiccia, soppressata, coppe, lonze, ragù, polpette o polpettoni. Nel 2016 a Iglesias, alle pendici del monte Marganai, è nata la Società Agricola Demetra gestita da due miei nipoti che si occupano dell’allevamento del suinetto da latte. Lo allevano nel pieno rispetto del benessere animale garantendo una vita all’aperto, l’uso della lettiera in paglia per i lattonzoli e un pavimento continuo per i passaggi indoor.
Abbiamo parlato di bovini e di suini ma di ovini e caprini cosa mi dice. – Per gli ovini e i caprini mi appoggio a piccole produzioni locali di amici che allevano la pecora e la capra. Ho questa linea aperta con persone che allevano da tempo. Posso dire che ho le loro chiavi di casa tanto siamo amici.
In Italia però la pecora non ha la stessa tradizione di consumo di altre carni. La sua clientela come si rapporta alla pecora se non è di origini sarde? – La pecora ha da sempre molti estimatori in Sardegna anche se a Cagliari cambiano un po’ le preferenze e solo negli ultimi si è iniziato a capirne la qualità gastronomica. Ormai c’è una precisa volontà degli allevatori di dare valore alla carne di pecora visto l’apprezzamento del mercato. Dobbiamo ringraziare l’operosità di piccoli salumifici che la nobilitano trasformandola in salumi, prosciutto e salsiccia secca soprattutto.
La pecora viene allevata all’aperto. – Devi considerare che al 97-98% il comparto ovino in Sardegna cresce libero. Sono pecore d’erba. La pecora non è una capra che si arrampica e ha una masticazione che le permette di mangiare arbusti in tutta serenità. La pecora ha bisogno di un alimento morbido.
Sono carni che mantengono una loro intensità e robustezza gustativa proprio grazie all’allevamento all’aperto. – Certamente. Ma sono carni che richiedono di essere lavorate bene. Vanno addomesticate in cucina. Chi ama una carne con un profilo sensoriale meno intenso non consuma carne di pecora. Ti dico però che il turista è comunque curioso e la cerca. D’estate ne lavoro tanta proprio quando la pecora ha la pastura secca che esalta l’intensità aromatica della carne. D’inverno la pastura è invece fresca e quindi il gusto della carne è più delicato. La presentiamo come arrosticini e come spiedini. Facciamo la pecora a succhittu cuocendola in umido con il cannonau. Posso poi disossare la coscia, imbottirla, cuocerla al forno a bassa temperatura e finirla in tegame con brodo e cannonau. La accompagno d’inverno con la cicoria selvatica. Ma abbiamo anche il ragù di pecora e l’hamburger di pecora. C’è, come vedi, un panorama ampio. La mia forza però chiaramente è il bovino.
In che cosa si diversifica? – Per una serie di fattori che si integrano. C’è una questione genetica, una questione di allevamento e una questione di territorio. Un bovino fa quel che la sua genetica gli permette secondo le modalità imposte dalle forme di allevamento e dalla vocazione del territorio. Non che la razza sarda sia superiore alle altre razze che si possono trovare in Italia. Ma se porti la Sardo Modicana in Lombardia tutto cambia perché si esprime diversamente. In fondo vige la regola che ogni territorio ha le sue caratteristiche e le sue razze. Se torniamo a piombo è l’allevamento che fa la differenza. Un regime di allevamento estensivo come noi facciamo, e cioè lasciare l’animale tranquillo senza forzature e che possa prendere il tempo necessario per la crescita, è un vantaggio competitivo.
Come allevate i vostri capi? – Per la maggior parte dell’anno l’allevamento dei bovini si svolge all’aperto, in pascoli naturali, tra i 250 e gli 800 metri di altitudine. Questi terreni, di origine vulcanica e mediamente acidi, producono pascoli che si mantengono freschi fino a estate inoltrata. Dopo lo svezzamento il vitello è tenuto in stalla per un periodo di 5-8 mesi e lo si alimenta con un mix di farine di orzo, di soia e di mais, con crusca, piselli, polpa di barbabietola da zucchero, fieno di loietto e avena, con trifoglio. La dieta è integrata con paglia per garantire una buona ruminazione. Durante il ristallo, il periodo preparatorio alla fase di ingrasso degli animali che provengono generalmente dal pascolo, è di fondamentale importanza disporre di un mangime dall’elevato tenore di fibra che sia altamente digeribile e che dia un’ottima integrazione minerale, vitaminica e un corretto tenore proteico.
Sono da poco stato in Giappone e ho provato Wagyu nella versione forse più elegante quella del manzo di Kobe. Cosa dà di vantaggio la carne giapponese vista da un macellaio? – Io personalmente… [Mi guarda fisso negli occhi con serena tranquillità e non commenta] …
… a me visivamente non piace. – Wagyu e Kobe hanno alle spalle un discorso di business e di comunicazione, un grande marketing. In questo i Giapponesi sono maestri e hanno saputo comunicare molto bene il valore delle loro carni. Qualitativamente non riesco ad apprezzarle. Per me un conto è mangiare carne un conto mangiare grasso.
Io amo il grasso della carne e me lo aspetto nella bistecca se si vuole completare l’esperienza gustativa nella sua essenza ma non nella misura, o meglio, nella struttura che assume nella carne giapponese. Il wagyu è troppo marmorizzato per i miei gusti. – Così è esagerato, per la mia cultura almeno. Ma anche in Giappone vendono wagyu in posti esclusivi e a prezzi importanti. Non credo sia il core business, il pilastro del settore carni nipponico perché i Giapponesi allevano altre razze bovine.
Voi che avete Ichnusa potreste usare la birra sarda per massaggiare i bovini, Heineken permettendo. – [Ride]. Sarebbe una bella operazione di marketing… di legami col territorio e tra produttori. Potremmo usare il mirto al posto del sakè.
Al di là del discorso della macelleria lei definirebbe il suo locale una trattoria? – Si. Infatti parlo di Tratto-macelleria.
Come è nata l’idea di aprire una trattoria? – Era un progetto che avevo da molti anni perché per me era fondamentale far conoscere l’animale nella sua totalità.
Ma il futuro della ristorazione secondo lei va verso una trattoria di qualità o gli stellati ancora hanno una speranza? – Difficile rispondere. I ristoranti stellati sono concettualmente molto diversi dalla mia trattoria. Bisogna già combattere per distinguere tra trattoria e osteria, concetti che nell’immaginario del consumatore mainstream tendono a sovrapporsi e invece sono molto diversi. In trattoria si mangia, la qualità conta, si spende perché si dà voce ai piatti e alle eccellenze del territorio. L’osteria è legata alla figura dell’oste, offre piatti semplici e più veloci, meno costosi. Dà ospitalità. I ristoranti invece aprono un panorama diverso. Con gli stellati raggiungiamo prezzi che per me sono eccessivi, non ingiustificati ma eccessivi.
Con uno chef stellato in fondo, è come se pagassi un prezzo che equivale a quello di un’esperienza che posso fare in un museo come il Louvre o gli Uffizi. Io non valuto nemmeno se il cibo sia buono o cattivo. Certo la palatabilità conta ma in uno stellato a mio avviso meno di altri parametri che qualificano la mia esperienza edonistica. Voglio avvicinarmi all’estetica dell’artista, alla filosofia di pensiero che muove i concetti che arrivano sulla tavola. Se andassi a vedere un museo di arte moderna farei lo stesso percorso culturale che faccio mangiando da Bottura, Romito e da tutti i nomi altisonanti che conosciamo. Potrei rimanere affascinato da un concetto senza per questo gradirne l’estetica e voler comperare l’opera. Se voglio del cibo però faccio un altro tipo di percorso e passo da una trattoria di qualità. Li pretendo quantità, palatabilità e rassicurazione. – Ci sono troppi punti di ristorazione che si fregiano di essere delle trattorie quando non lo sono. C’è un pressappochismo nell’offerta che snatura il concetto di trattoria. Ci vorrebbe più serietà, più etica, più rispetto per i consumatori. Lasciamo stare i piatti. Le faccio un esempio col vino. Nella mia bottega i clienti possono comperare la giusta bottiglia di vino. Quello che comperi qui in bottega e porti a casa è quello che bevi a tavola. E il prezzo è lo stesso. Io non faccio mai rincari quando servo una bottiglia al tavolo. Lo considererei un furto.
Il prezzo di vendita ha un’etica. – Certamente. La bellezza di una trattoria è anche quella di poter scegliere una bottiglia di vino di giusta qualità senza essere angosciato dal costo. Io ho vini esclusivamente sardi di piccole cantine. La qualità è buona, i prezzi contenuti.
Ho visto in macelleria che ha ‘vini di fiume’ e ‘ vini di mare’. – Da noi si dice ‘su binu bonu cun su entu e su mari’. In fondo l’acqua influenza più di quanto pensiamo la qualità di un vino. Avrà visto bottiglie di Bovale della cantina La Giara, di Cannonau della cantina Colline del vento, di Nebbiolo Colli del Limbara della tenuta Muscazegas di Luras, il S’incontru, un Cannonau Nepente di Oliena DOC della cantina Vignaioli di Oliena e tanti altri.
Mi dicevano che ha una quota di bottiglie biologiche. – Si, ce ne sono.
Io non sono così amante del biologico, ancor meno del biodinamico e per nulla dei vini naturali. Il vino è un manufatto dell’uomo e richiede tecnica. La natura non sa farlo. L’uva non diventa naturalmente vino, semmai aceto. – La trattoria, almeno quella che io ho creato, deve essere un posto dove la gente deve sentirsi a casa. Ci vuole semplicità, convivialità. Se devo farmi la scarpetta nel piatto posso farmi la scarpetta senza nessun problema. Se si sta bene bevendo vini biologici lascio in carta vini biologici scegliendo quelle cantine che ritengo facciano prodotti di buona qualità a un giusto prezzo.
Qui da lei ci si sente a casa. Il personale è cordiale. Confesso di essermi divertito molto. – Penso che a tavola ci si debba sentire sereni. Non credo nei posti troppo blasonati e con un servizio ricco di formalismi in cui l’etichetta sopraffà la libertà dell’ospite di esprimersi a tavola. Noi vogliamo dare serenità, calore, far percepire quel senso di domus di cui la ristorazione ha bisogno perché i ritmi frenetici del lavoro e della vita possono portare a dimenticarsi del profondo senso di benessere che la tavola può dare. C’è tanta gente che oggi fa una buona ristorazione senza stelle, stelline e… quant’altro.
Da un lato si rimane sotto scacco del sistema se si vuole arrivare ad avere le stelle. – Questo non va bene. Lo ripeto: si può fare della buona ristorazione senza stelle e stelline. La cosa più bella è dare voce alla mia terra, dare voce alle persone che lavorano nella filiera e rimangono dietro le quinte. La realizzazione finale di un piatto è ovviamente opera del cuoco ma ci sono così tante persone dentro a un piatto che non possono essere dimenticate. Io so cosa vuole dire allevare un capo bovino come so il significato di accudire le mie scrofe. Vivo l’ansia e l’emozione di farle figliare, seguire i maialetti nella crescita. C’è tanto lavoro. C’è tanta vita dentro. Una ricchezza infinita. La vita delle persone che ritrovo in un prodotto è il vero valore di un cibo. Dar voce alla fatica di tante persone che sono a monte di un piatto è prezioso. Così facendo si riconosce il valore aggiunto di un territorio. Si dà voce alla gente che lavora.
E’ come andare a vedere l’opera alla Scala. Sarò romantico. Ci sono gli attori sul palco ma ci sono i costumisti, gli elettricisti, i tecnici delle luci dietro le quinte che rendono possibile lo spettacolo. Non finiscono sulla scena in prima persona ma attraverso un autore, un regista, un direttore d’orchestra, un soprano. Passano di lì e ricevono il loro applauso grazie ad altri cui si affidano e affidano il prodotto del loro lavoro. Lei ha il merito di portare tutta la filiera lunga delle carni sulla scena. Lei porta sulla tavola questo affidamento. Ed è etico far sapere che ritrovo nel piatto tutte queste voci, tutte queste mani, il loro sudore, le loro passioni. – A volte bisogna riflettere quando un avventore dice ‘’complimenti al cuoco’’. No, non è del tutto corretto. Non che il cuoco non faccia la differenza sia chiaro. Ma bisognerebbe ricordarsi di dire anche ‘’complimenti all’animale’’. Se non c’è la giusta materia prima il cuoco non va da nessuna parte. Partiamo allora ringraziando l’animale che è sacro includendo in questo ringraziamento l’intera filiera che lo ha reso di qualità.
Portare in tavola un pezzo di formaggio può sembrare un gesto banale… – Che si rivela però di grande valore sociale perché so che dentro quel formaggio c’è il lavoro, il sudore, la fatica di chi lo ha reso possibile. Non immagina quanto sia prezioso e importante per me dare voce al mio collaboratore che semina e raccoglie e fa i foraggi delle leguminose per gli animali da latte che è un lavoraccio d’estate sotto il sole. Si deve alzare alle quattro del mattino. Molti non lo capiscono perché non sono abituati ad andare oltre l’apparenza di un gesto per vedere cosa quel gesto rappresenti. Se metto un paio di euro su quel formaggio non sto rubando. Sto dando voce a queste persone invisibili riconoscendo il giusto valore del lavoro che passa anche attraverso il riconoscimento del giusto prezzo di un prodotto.
Vede, se torniamo all’alta cucina, al fine dining, temo che per un ragazzo sia molto più semplice seguire le regole di per sé non scritte che conducono dritte dritte alla stella: qualità degli ingredienti, armonia dei sapori, padronanza delle tecniche, personalità dello chef espressa nella cucina, coerenza nel tempo dell’intero menu. In fin dei conti è più facile stupire con tecnicismi, la fusione che integra elementi culturali lontani, l’arte della presentazione, l’affabulazione e si avrà la chance di rendersi visibile agli occhi di un giudice della guida Michelin. Chissà perché ma la ricerca che porta a fondere elementi multiculturali in un piatto affascina spesso un giudice più di quanto un lavoro in sottrazione che vada all’essenza di una ricetta che rappresenta il territorio. Viva l’alga nella pappa al pomodoro, nel risotto alla pescatora o nell’ impasto dei cappelletti. – [Sorride]
Benché il fine dining più serio in Italia sia influenzato dalla cucina tradizionale del territorio, la cucina stellata sogna quasi sempre un grande banchetto universale svincolato dai limiti geografici, prendendo il meglio di ogni luogo in nome di un sincretismo gastronomico. Asseconda cioè l’idea di una cucina di fusione che in nome dell’integrazione gastronomica abbatte le barriere culturali che fanno del cibo un elemento di distinzione sociale. Omogenizzando in prodotti innovativi ingredienti culturalmente eccentrici provenienti da più parti del mondo, reinventandone l’uso rispetto al contesto culturale di appartenenza, sembra infatti essere propedeutico a una cucina gourmet sofisticata ed estrosa, a volte estrema e a tratti non immediatamente comprensibile che avvia alla stella. Costa probabilmente molta più fatica impegnarsi con il territorio e allinearsi con esso nel rispetto di presìdi, produttori e materie prime in nome di una purezza ancestrale che richiede una passione da miniaturista per luoghi sempre più piccoli come ricorda Montanari nell’opera ‘Il cibo come cultura’. –Occorre capire il territorio e investire su di esso senza cadere in facili stereotipi e banali standardizzazioni che rendano la cucina del territorio avulsa dal contesto e dai tempi in cui viviamo.
E ci vuole la voglia di farlo perché costa fatica nascere in un territorio e rispettarne l’appartenenza. Mi si passi la battuta: ‘un territorio è basso quanto la terra è bassa’. Fa sudare e provoca i calli sulle mani. Un territorio sa essere madre generosa che dona ma anche madre gelosa che toglie e pretende. Bisogna essere un seme che germoglia grazie all’humus e al calore del terreno, ancorarsi ad esso e nutrirsene perché l’uomo, la sua humanitas, origina dalla terra e la sua umanità si sviluppa in relazione al contesto ambientale in cui vive. E’ una questione di radici perché senza radici non si ha memoria e la cucina diventa un esercizio di stile, magari perfetto, ma sterile. Bisogna poter attingere nella memoria e poter ritornare a trovare nella memoria. ‘Una cucina che produce sapori artificiali, che non conosci, non ricordi, a cui non ti affezioni è destinata all’estinzione’ diceva Arrigo Cipriani dell’Harry’s Bar. La trattoria nasce da qui. Dalle radici. Credo poco ai trapianti o agli innesti che vivono artificialmente cresciuti su un supporto alieno. Gli elementi multiculturali in una ricetta, seppur ingegnerizzati con precisione, mi sembrano spesso portare a delle chimere. – Con tutte le difficoltà che gli stellati devono affrontare… Mi posso togliere lo sfizio una volta ma non è che poi possa andare tutti i giorni da uno stellato.
Poi chiedono la fidelizzazione del cliente. A un menu degustazione a tre cifre posso avvicinarmi semel in anno se mi va bene. – Con quella spesa in trattoria ci passi le volte che vuoi.
Quando si viene a mangiare e c’è una verità nei piatti è come andare in chiesa. Faccio un atto di fede ma per farlo devo vedere che c’è una verità che mi viene comunicata. – Questo è fondamentale. Alla base. Devo dirle la sincera verità. Ho tantissimi clienti che non vogliono nemmeno vedere il menu. Non gliene frega niente.
‘ Dimmi tu…’ è il loro incipit. – Bravo. E questo è il più grande riconoscimento. ‘’oggi cosa mi fai mangiare’’. Mi nutro di te attraverso la fiducia che ho di te.
C’è un affidamento. In fondo diventiamo quello che mangiamo e affidarsi completamente è un gesto di fiducia e riconoscimento perché accettiamo di essere cambiati attraverso questo affidamento. – Ci sono clienti che da noi vengono due o tre volte la settimana e sono ormai di casa grazie a questa frequentazione assidua. Sanno della mia abitudine di disporre di un animale intero e di far assaggiare oggi un taglio ritenuto nobile e domani una parte creduta erroneamente meno nobile. Ma si affidano a questa mia proposta.
Io ho una domanda irriverente che di solito pongo agli intervistati e cioè quanto ci si sente nudi quando si cucina. Nel suo caso, visto che cucina meno dei suoi cuochi, quanto si sente nudo nella sua proposta da macellaio, quanto ci si espone e si mette nudo nella sua verità con le persone che vengono a mangiare da lei. La macelleria in fondo è una questione di carne. Un macellaio non può prescindere dalla sua nuda carne. – Io non mi nascondo dietro un dito che poi… un dito non so bene cosa possa coprire. Io son così. A volte chi mi conosce meno mi dice ‘Sei un bravo cuoco’. No, non è così. Posso anche cucinare certo. Ma non sono un bravo cuoco e nemmeno un cameriere anche se posso portare in tavola con piacere dei piatti. Sono un macellaio e rimango un macellaio. Amo il mio lavoro.
Sfonda una porta aperta con me. Fatichiamo così tanto ad essere noi stessi e poi realizzo che è già tanto se chi ci osserva ne capisce una, e dico, una sola, delle dimensioni che ci rendono quello che siamo. Detto questo, ma quanto un consumatore medio ha la capacità di capire la qualità di un servizio e di un’offerta gastronomica? – Anche zero. Manca un’educazione, la capacita di comprendere. Vede, la tavola è storia. Da che mondo è mondo la tavola è cultura. Se guardo alla mia terra e parto dai nuraghe la tavola, la convivialità aveva un grande valore. La condivisione di un porchetto faceva nascere un dialogo, un confronto. Oggi viene a mancare questo significato.
Purtroppo rimane l’atto che viene svuotato del significato. Ci sono forme e rappresentazioni che hanno perso la funzione di veicolare un messaggio. Quindi sono insignificanti. Non sappiamo più andare oltre l’apparenza. Una sua ricetta? – Se devi preparare il Su Ghisadu di bue rosso hai bisogno del Cannonau. In fondo è carne cotta in umido grazie al vino. Poi condisci la pasta o lo metti su una buona fetta di pane. Io lo faccio con il bue rosso anche se tradizionalmente si usava agnello adulto o pecora. Il manzo era storicamente per le famiglie più abbienti o per i giorni di festa. Uso tagli meno nobili del quarto anteriore. Vanno benissimo la copertina del reale o della spalla. Le devi fare a grossi pezzi in un soffritto di olio extra vergine, aglio, sedano, carota e cipolla. Quando la carne inizia a scaldarsi bisogna aggiungere alloro, ginepro e timo. Si versa poi del brodo vegetale e si copre con il vino. Una volta ridotto il vino si aggiunge della polpa di pomodoro. Si regola di sale e si fa cuocere per almeno tre ore.
Sa Cordula con i piselli? – E tu come la conosci? Se ami l’intestino di agnello lo devi far lessare per mezz’ora. Poi lo rosoli con olio extra vergine, vino bianco e cipolla. Aggiungi i piselli. Lasci cuocere a fuoco lento. E se vuoi esagerare, esagera con della buccia di limone.
Ajoo tottus a mesa
Nel menu della trattoria troviamo l’inedito suitonno e molti altri piatti tradizionali: natalis con purpuzza, parasangue, bombas di bue rosso, trippa alla sarda, trattalia, agnello in verde, agnello in crema di uovo e limone, Cinghiale di Tertenia al Cannonau. ‘Richiedono tempo per la preparazione a causa delle lunghe cotture’ mi confessa Vivarelli. Molti piatti scompaiono purtroppo per mancanza di tempo e ad essi Vivarelli cerca di donare nuova vita. Difficile scegliere dalla carta del menu cosa provare, ancor più dai piatti del giorno, ed io, amante dell’agnello e del capretto in tutte le loro forme, non voglio rinunciare a un classico agnello con carciofi lasciandomi poi, come concessione, l’assaggio dell’agnello in crema di uovo e limone. Le erbe amare di campo sono una passeggiata tra le campagne e raccolgono l’essenza del territorio cui non posso rinunciare. Mentre finisco l’agnello una voce alle mie spalle mi raggiunge. ‘Glielo posso appoggiare? ’ Mi volto incuriosito dalla proposta ed è il cameriere che ha raccolto il mio tovagliolo. Da un uomo non ho mai ricevuto troppe avances forse perché tutti sanno che vivo nel mito di una certa Charlize Theron e del suo corto vestito che si smaglia mentre la giovane si allontana da un Martini. Ma le seadas sono calde dolci e avvolgenti di piacere. Le più buone abbia mangiato e il cameriere si merita un ‘si, ma solo se lo appoggia piano’ perché l’incanto della tavola è leggero come una bolla di sapone e non merita di essere strapazzato da troppa irruenza nemmeno quando si tratta di un gesto d’amore. Specialmente quando l’amore non era richiesto e arrivava del tutto inatteso alle mie spalle.
Una nota finale
Mio bisnonno Ignazio contribuì alla costruzione de La Rinascente di Via Roma sulle ceneri del cinema Iris a Cagliari. Era la fine degli anni Venti. Lui ha visto la Cagliari dei caffè eleganti, dei tram elettrici, di via Roma con il passeggio all’ombra dei pioppi, dei balconi fioriti da cui le donne facevano le civette perché, in fondo, come disse Grazia Deledda, Cagliari è la città dell’amore. Ha avuto negli occhi i piccioccus de crobi fuori dalla stazione, dal Partenone di largo Carlo Felice, lungo le banchine dei moli pronti a portare merci con le loro ceste; le panetteras di Villanova ciurlate dal Carnevale Casteddanu per essere pettegole e gli arigatteris che contrattavano il pesce al porto perché Cagliari è una città in cui la vita è stata ironica a tal punto da avere infornacristi a Villanova, ‘sederi a mollo’ alla Marina, ‘piscia tinteris’ al Castello e ‘cuccurus cottus’ stampacini dalle teste calde, permalose e un po’ perfide. I cagliaritani si sa amano da sempre i soprannomi e sono certo che abbiano ribattezzato ‘strangiu’ il bisnonno. Ma sono altrettanto certo che il bisnonno abbia apprezzato la città e la sua gente: allegre, ospitali, ironiche, con un profondo gusto del paradosso nelle loro chiusure e resistenze ma anche nella capacità di adattarsi e di confrontarsi con lo straniero. Non so però se abbia mai sperimentato quanto ‘mandroni’, ‘murrungioni’ e modaioli possono essere i Cagliaritani. In fondo questi sono vizi virtuosi del cagliaritano moderno. Apprese però il vezzo di mettere sempre il verbo alla fine della frase come nella sintassi latina e, tornato nelle quiete Prealpi, disse a sua moglie Michelina in un impeto di nostalgica gioia ‘bella sei! ’ anzi ‘ bella solo sei’ cercando di rincarare la dose malgrado la moglie percepisse che quel ‘solo’ la stesse sminuendo invece di esaltarla in una forma tutta sarda assolutamente superlativa. Benché a Cagliari si trovasse molto bene il bisnonno non commise l’errore di definirsi sardo d’adozione perché sapeva che per i Cagliaritani rimaneva in qualche modo uno straniero e gli isolani avrebbero storto il naso. Seppur lo straniero a Cagliari diventi o eroe o un Dio. Gigi Riva da Leggiuno e Sardus, Dio eponimo di origine nordafricana, ben ci insegnano.