Uncategorized

Filtra per news e eventi:

La cucina monoproteica di Onofrio Pagnotto – di Gianluca Donadini

Onofrio Pagnotto, 25 anni da Vietri in Provincia di Potenza. Due stelle Michelin, la rossa per la cucina e la verde per la sostenibilità. Siamo a Vulcano, nel Therasia Resort Sea & Spa 5 stelle lusso ospiti de Il Cappero, il ristorante che Onofrio guida da aprile 2024. Un cambio stilistico importante per un ristorante stellato devoto alla cucina della tradizione siciliana da cui brigata e executive chef traevano ispirazione per lunghi viaggi gastronomici attorno al mondo. Ora la cucina è monoproteica. Si dà luce a carne o pesce in purezza concedendo spazio al pane che in Sicilia è un simbolo ricco di significati ancestrali irrinunciabili. Gli ingredienti vegetali sono autoprodotti, le proteine provengono dalla pesca a mano o da allevamenti non intensivi. Non si spreca nulla nel rispetto della sostenibilità ambientale e sociale. Tra i piatti signature di Onofrio la “Spigola alla Brace” e “Gallina e uovo” – un bottone di pasta realizzato con il solo tuorlo e arricchito da un ripieno di genovese di gallina vecchia. Territorio, gusto e purezza sono senza dubbio le parole chiave della cucina di Pagnotto, un ragazzo cresciuto in fretta come accade a molti Lucani abituati a lasciare la Basilicata e mettere radici dove serve per vivere bene una vita secondo regole e principi che portano all’essenza grazie a un forte senso di adattamento. Scopriamo Onofrio, un Lucano educato e pacato, uomo di antica cortesia, che, senza nulla togliere alla propria terra madre, sente e vive la Sicilia come una seconda casa.

Umberto Trani, direttore del Therasia Resort Sea & Spa, lo definisce la parte razionale di Davide Guidara. Onofrio lo è. Calmo, posato, un viso gentile reso timido dall’occhialino a montatura leggera. Lo vedo mentre passeggia nella sua giacca bianca tra gli arbusti odorosi che disegnano gli spazi verdi del Therasia e collegano il sentiero botanico che porta nella tenuta del Resort. Giovanissimo lavora al Forte Village di Pula, in Sardegna. Gli stage al Noma di Copenaghen e all’Azurmendi di Bilbao tracciano rette di gusto nell’estetica del cuoco lucano. Perché Onofrio è persona educata ma inflessibile, in cucina come nella vita, è l’educazione conta. Eneko Atxa, suo maestro all’Azurmendi di Bilbao è basco e come tutti i Baschi è forte fuori e tenero dentro. E in fondo anche Pagnotto è forte fuori e tenero dentro. Probabile che questo guscio di protezione sia stato il territorio stesso con il suo  atavico isolamento a tesserlo come un bozzolo. Quello che siamo dipende dall’adattamento all’ambiente che ci plasma con una vis interiore che caratterizza e Potenza, “la città verticale dalle cento scale” nell’alta valle del Bisento, è stata città di montagna difficile da raggiungere. Così Pagnotto sembra irraggiungibile, e, una volta raggiunto,  impenetrabile, malgrado la giovane età, perché si isola grazie all’aplomb che ne nasconde il cuore benché questo batta sincero e sprigioni calore.

Dal 2018 vive e convive con Davide Guidara: prima al Sum di Catania; poi dal 2021 a I Tenerumi del Therasia a Vulcanello. Guidara è uomo che travolge; Pagnotto uomo che contiene e argina. Al fuoco che si accende e riscalda e crepita bruciando idee si contrappone la ragione che medita e risolve e che dà forma alla geniale intuizione che corre libera in Guidara. Ora le strade si separano, seppur virtualmente, perché rimaniamo al Therasia e Guidara mantiene la direzione artistica de Il Cappero. Pagnotto è però cresciuto. Merita una brigata. La sua cucina è degna di una riflessione nella sala bellissima de Il Cappero. Serietà e rigore sono binari che danno sicurezza nella gestione di una brigata importante come quella che Onofrio si trova ora a dirigere.  Col tempo Imparerà ad amare e a lasciare che l’amore, ora tutto interiore, si materializzi con un rossore d’emozione sul viso e un fremito della mano, senza più paura di parlare con un linguaggio del corpo ora mediato da un severo rigore.  L’intuizione di lanciarlo alla guida de Il Cappero è stata ripagata con la stella Michelin che il ristorante conserva al teatro Pavarotti di Modena lo scorso autunno. E non poteva essere diversamente per il valore di una cucina precisa, geometrica, ma non per questo troppo cerebrale.

Incontro Pagnotto un pomeriggio assolato di un’estate che inizia a farsi decisa. Il riverbero del sole sul mare tranquillo non disturba il volo dei gabbiani che godono delle termiche per risalire senza fatica le scogliere di una costa alta che dà un orizzonte ampio sulle isole sorelle di un arcipelago, quello delle Eolie, che non sentono il bisogno di abbracciarsi pur non rinnegando il legame di parentela che le accomuna.

Il menu – Scelgo il menu di sette portate. Posso poi decidere quale tipologia di acqua mi accompagnerà negli assaggi e sfiderà il vino tra  San Pellegrino, Panna, Lurisia e Cedea. Elimino Panna perché amo l’acqua con le bolle e scelgo Cedea perché in fondo le Dolomiti da cui sgorga si ricordano ancora di essere state un vasto mare.  E la bottiglia è stilish con i riflessi rosati e blu nella versione naturale o frizzante a ricordare  che Cedea, leggera e  dolcemente alcalina, brilla come l’enrosadira, riflettendo intensamente la sua esclusiva bottiglia vibrazioni rossastre delle rocce delle Dolomiti e riflessi turchesi dei cieli che le sovrastano. Non trovo un azzardo o un tentativo di essere fusion questa unione di mare e montagna grazie a un’acqua che sgorga fredda e pura dalla roccia nuda con la propria energia.

Il benvenuto di Pagnotto si abbina bene con una bollicina. Così mi suggerisce Giuseppe, il sommelier.  Scelgo poi un paio di abbinamenti per i piatti più iconici perché una degustazione che abbini un calice ad ogni portata è impegnativa di suo e l’alleggerisco centrando la carta dei vini sui piatti più significativi della serata. Coniglio e pecora non richiedono un rosso molto strutturato e condividiamo la scelta di un calice di Cerasuolo di Vittoria. Lascio libertà per il bianco, sia  per tipologia di vino sia per il piatto cui abbinarlo, anche se conveniamo di non voler tradire la Sicilia e l’enologia etnea.

Il tavolo guarda il mare. Lipari è difronte a noi. Siamo sospesi nel braccio di mare che divide le due isole perché  Il Cappero si apre come un nido accogliente  protetto nella costa alta di Vulcano. L’ampia vetrata chiude materialmente la sala ma non limita l’affaccio spettacolare sul mare interno delle Eolie. Si gode del tramonto e si assiste al passaggio del di alla notte con le mutate priorità di un’isola che ancora esprime con vitalità ancestrale l’alternanza di modalità che regola i ritmi circadiani della terra.  La cucina di Pagnotto è a vista ed esprime una regia mai invasiva che lavora alle spalle dei tavoli da cui lo chef dirige modi e tempi della brigata. Laboriosa eppur silenziosa, la cucina controlla la rete di flussi del personale di sala e orchestra il concerto di tavoli dando agli ospiti i tempi della messa in scena senza che l’avventore percepisca di far parte dell’apparato scenico allestito da Il Cappero  quando si consegna al personale di sala.  Una volta scesa la sera, e la sera precipita velocemente appresso al giorno a queste latitudini,  punta Crapazza e Monte Guida, che di Lipari sono gli avamposti visibili dal Therasia con i pochi vigneti e le rare case, cedono al fascino della notte che alle Eolie sa essere primitiva come la lucentezza delle stelle merita. E il gioco di riflessi che si crea spontaneamente  proietta la cucina di Pagnotto attraverso le vetrate sospendendola nel Tirreno Meridionale in un gioco di illusioni che portano lo chef e la brigata a confondersi con un mare che assume profonde tonalità di blu capaci di occupare gli spazi tra le due coste invase dalla notte.  Cosi osservo comodamente ogni atto della brigata pur dando le spalle alla cucina. Questa è la chef table perfetta. Nessun architetto ha studiato questa trasparenza che riflette. Eppure la bellezza, quella vera, naturalmente accade.

Il benvenuto di quattro assaggi in ordine libero include ricciola maturata 7 giorni, servita con foglia di cappero, scalogno alla soia e agretto di datterino; polpo cotto in pressione nella sua stessa acqua con una salsa al finocchietto selvatico, limone salato e glassa al malvasia; un pan brioche da mangiare rigorosamente con le mani, ripieno di stracotto di coniglio, maionese al cipollotti bruciato e code di cipollotti in aceto che riprende il tradizionale spuntino che i pescatori portavano un tempo a mare. Finiamo con una cozza marinata in scapece alla paprika, crema di cozza e mollica tostata.

Il bianco, un DOC Etna Bianco, è della cantina vitivinicola Al-Cantara di Randazzo in Provincia di Catania, un’impresa che coniuga vino, arte e poesia in una visione dialettica dell’operoso mondo del vino. “Qui ogni bottiglia è un racconto, ogni etichetta un’opera d’arte, e ogni sorso un’esperienza che affonda le radici nell’anima dell’Etna”.  I climi miti cui sono soggetti i vitigni in altura favoriscono una maturazione equilibrata dei tannini nei vini rossi e permettono agli aromi dei vini bianchi di svilupparsi in modo armonioso. Si creano così vini di personalità, mineralità spiccata, freschezza ed eleganza. Il vino in assaggio è così fresco, con delicate note di fiori bianchi e frutta e una piacevole struttura minerale grazie al terroir vulcanico dove sono cresciute le uve.

Con l’olio siamo a Buccheri, in Provincia di Siracusa, sui monti Iblei. Terraliva IGP biologico è prodotto con olive raccolte a mano da esemplari secolari di cultivar cresciute in altura su terreni vulcanici. La spremitura a freddo e il microclima che gode di notti fresche e pomeriggi assolati come solo la Sicilia sa dare sono radici di qualità per un olio che ha ricevuto 5 gocce da bibenda, 3 foglie dal Gambero Rosso, il titolo di Grande Olio e Presidio da Slow Food grazie a una filosofia di produzione che unisce cultura, culto per la natura, attenzione per la cucina, passione e tanta dedizione.

In Gambero e avocado il gambero di nassa eoliano è servito con finger lime, una salsa ottenuta dalle lavorazioni delle sue teste, cuore di guacamole e acqua fermentata di mela verde, sedano e zenzero.

Alici e Garum stupisce per la croccantezza della lattuga di mare e dei pinoli tostati e l’intensa brezza marina ricca di note iodate e umami delle alici di Catania marinate con olio e lime e servite con maionese al garum.

La seppia è servita  in una profumatissima marinatura, una vinagrette agrumata di yuzu strutturata dalle piacevoli note piccanti di kosho, peperoncino giapponese. Un piatto fresco in cui si avverte il contrasto tra acidità e dolcezza, freschezza e calore, come una brezza marina della sera, quella dell’imbrunire, quando rinfresca e lascia la voglia di un maglioncino di lana sulle spalle.

Con il bottone di gallina si passa alla pasta all’uovo ripiena di genovese di gallina vecchia servita su una base di burro fermentato per due mesi. Del tuorlo d’uovo coagulato, affumicato e grattugiato, ricopre il bottone. Un piatto che strizza l’occhio e che piace perché è bello da vedere, armonioso nella decorazione della pasta ripiena, capace di gusti che ognuno di noi ritrova nelle tradizioni familiari di una cucina domestica, che, seppur meno studiata, ha percorso simili linee di gusto.

Con il rosso siamo nella parte Sudest della Sicilia. Il Cerasuolo di Vittoria è  l’ unico vino siciliano a godere della Denominazione di Origine Controllata e Garantita. Si caratterizza per l’Intensità del Nero d’Avola e la leggerezza del Frappato. È un’annata 2019 caratterizzata da sentori di fiori rossi e prugna. Sposa bene la pecora in umido preparata con latte ovino coagulato, cetriolino e erba cipollina. “Il menu è monoproteico. Nella tradizione siciliana cerchiamo però  di abbinare un carboidrato ad ogni piatto”. Mi spiega Michela mentre ridà  ordine alla tavola disponendo i pochi arredi con geometrica razionalità. Ecco allora un pane alle patate in accompagnamento che richiama il bazlama turco, condito con salmoriglio, condimento siciliano a base di aglio, olio, sale e limone. La pecora è sapida e aromatica. Una ventata di note odorose che sale come una brezza che stropiccia i cuscini selvatici di timo in fioritura di cui le isole sono ricche avvolgendo e naso e bocca.

Il coniglio porchettato è grasso e succulento come una vera porchetta di maiale. Ha note balsamiche intense grazie all’alloro in polvere. Servito con un’insalata di cipolle in agro con uvetta e riduzione di vino rosso ossidato che stempera la succulenza del grasso, acquista una fine eleganza. Il pane è ai tre semi: lino, girasole e sesamo.

L’Ombrina è lasciata maturare per sette giorni, cotta alla brace e servita con beurre blanc. Si accompagna con emulsione di ventresca sempre dell’ombrina.

Il pre-dessert celebra il limone. Si parte da una melaka che è una crema soffice di limone, una marmellata di limone, un limone a vivo, una meringa,  lo spumone e le zeste proposte in una costruzione che vuole celebrare il vulcano che dell’Isola è l’anima.

Il dessert principale si crea con l’aiuto del pastry chef Gianluca Colucci che guida nella scelta degli ingredienti preferiti che comporranno il dolce fatto su misura in un gioco che porta l’ospite a lasciare il tavolo, salire pochi gradini per dare un saluto alla brigata e scegliere tra tante combinazioni di ingredienti possibili esposte al tavolo dei desideri che anticipa un elegante laboratorio open space.

Scelgo un dessert che nella realizzazione finale di Gianluca sia fresco, fruttato e croccante, tre linee del gusto che in pasticceria mi soddisfano sempre, e Colucci improvvisa sui miei ideali sensoriali il testo che matrici di qualità diversissime porteranno in scena come in una piece teatrale pirandelliana in cui cioccolato, mango e fragole sono in cerca d’autore. Il tema è  ancora il limone e Colucci si ingegna di servirlo con crema al cioccolato bianco, confettura di fragole, cialdina al cioccolato bianco e gelato al mango.  Improvvisando secondo un’arte dell’istante, che con Colucci non equivale mai a casualità o approssimazione.

 

 

 

 

INTERVISTA

E’ necessario essere controllati nella vita, e quindi in cucina, oppure no? – Esistono protocolli comportamentali per ogni situazione  e ci sono norme di galateo che è importante seguire sempre nella vita se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi. Il successo nella vita segue un’etica personale. Dobbiamo stabilire dei vincoli, mettere dei confini da non superare, fissare delle regole per avere una crescita educata.

Perché porci dei limiti? Non pensi possano toglierci delle possibilità? – Porci dei limiti no. Limitare gli eccessi che portano fuori strada, che distraggono, che fanno perdere tempo, che portano a uno spreco. Per restare sulla strada che abbiamo deciso di percorrere.

Quindi partiamo dal presupposto che già sappiamo quale sarà la nostra strada? – Sì. O almeno per me è così. Dobbiamo avere  degli obiettivi ben chiari nella vita.

Dobbiamo o dovremmo? – Dobbiamo.

Si nasce volendo fare lo chef? – Non volevo fare lo chef. All’età di tredici anni mio fratello mi chiamò una notte di ritorno dal lavoro mentre dormivo, lui faceva il cameriere nel locale di mio zio, e mi disse “Onò, domani dobbiamo pulire del pesce perché abbiamo un sacco di asporti”. Io che non sapevo pulire né alici né cozze mi sveglio la vigilia di Natale e vado di malavoglia al ristorante a lavorare. E ti dico la verità a tredici anni, il pesce, proprio non lo vuoi toccare. Da lì però ho iniziato ad appassionarmi. Era l’età giusta perché dovevo decidere cosa volevo fare nella vita. Scelsi l’alberghiero. E ti confesso che non è stata la migliore delle decisioni.  Avrei voluto istruirmi in un istituto un po’ più…

Questo me lo dicono tutti… – Perché l’alberghiero ti fa uscire con un background molto ignorante. Sono pochi gli alberghieri che ti formano veramente nelle lingue, nella cultura, nel diritto, nella filosofia, nelle arti, nella gestione del food cost.  Ed è un peccato perché la cucina non è un momento di nutrimento e piacere fine a se stesso, ma porta con sé un’infinità di significati culturali, sociali e simbolici che dobbiamo imparare a conoscere e a trasmettere.

Insegnano almeno le tecniche necessarie in cucina? – Non sempre. A volta i professori hanno una formazione antica, quasi impolverata. Possono forse insegnare le basi ma una volta uscito dall’alberghiero c’è un confronto molto duro con il mondo della ristorazione e ci si rende conto che non si sa fare niente di quello che serve in sala o in cucina. Diventerebbe fondamentale poter frequentare scuole come Alma a Parma, ma i costi sono spesso proibitivi e non è una scelta alla portata di tutti. Però apre al mondo del lavoro.

Diventa quindi fondamentale imparare nei ristoranti – Uscito dall’alberghiero ho dovuto per forza buttarmi nei ristoranti per toccare con mano cosa significasse lavorare in una brigata e ho ripreso a studiare perché dovevo recuperare. In fondo per fare buona cucina serve conoscere l’arte, la filosofia, la cultura in senso più ampio. La scuola non te lo dice. Lo scopri lavorando.

Forse una cosa però non si impara: la fantasia. – Basta aprirsi. Bisogna essere aperti mentalmente. Se sei aperto mentalmente hai voglia di scoprire, hai voglia di cercare. E la ricerca ti porta ad innovare. Io a sedici anni non immaginavo che sarei arrivato al Therasia a fare cucina monoproteica. Penso di esserci arrivato per la mia continua voglia di scoprire e rimettermi in gioco.

Cucina monoproteica, se lo scrivo così sul magazine… – Passo per scemo! Non potevo trovare un nome più carino, sorry, perché il nome monoproteico rappresenta bene l’essenza di quello che facciamo. Monoproteico significa monoproteina, una singola proteina nel piatto senza distrarre il palato con altri ingredienti ma concentrando l’attenzione sulle sfumature di uno specifico elemento, che sia di terra o di mare. E’ un periodo in cui…

“Ma io ho bisogno della monoproteina?” si chiede il lettore? – E’ un tempo questo in cui tutti gli chef, a parte chi nasce senza peccato originale come Guidara a I Tenerumi, puntano sul vegetale con l’idea che sia sostenibile.

Io ho una idea molto precisa sulla sostenibilità del vegetale…e cioè che il vegetale è sostenibile solo e se l’intera filiera rispetta regole di produzione precise. Altrimenti non lo è, né più né meno di qualsiasi altra matrice. – Purtroppo sta passando il messaggio che la proteina animale non sia sostenibile perché proviene da allevamenti intensivi.

Un discorso poco saggio in senso assoluto. Perché criminalizzare chi mangia carne o imporre la carne sintetica che ha comunque un’impronta carbonica. – Il mio lavoro consiste proprio nel dimostrare che si può fare alta cucina con la proteina animale nel rispetto della sostenibilità. Bisogna sapere scegliere bene la proteina. Il mio gambero viene da Alicudi e Filicudi, non dall’Argentina.

E’ una questione di scelte. Può essere più o meno facile ma è una questiona puramente ideologica far passare il vegetale come la soluzione di tutti i problemi. – Certamente. Il problema è che il mondo delle proteine animali è sempre stato sottovalutato forse perché troppo di massa. Qualsiasi ristorante fa proteina, fa carne o pesce. Sono pochi i ristoranti che si identificano con una cucina vegetale e sono ancora meno quelli che lealmente fanno uno studio approfondito sull’elemento proteico.

Oltre a te chi c’è? – Niko Romito.  Però anche lui ultimamente ha svoltato sul vegetale.

Perché è una sfida cucinare il vegetale? – Perché fa moda. Non è il caso nostro de I Tenerumi. Né penso sia il caso di Romito che passa al vegetale per una sfida, una forma di disobbedienza a un sistema. Conta l’approccio iniziale. Molti cucinavano carne e pesce poi nel corso degli anni, cambiando le mode, hanno inseguito il vegetale. Io continuo con il mondo proteico. Anzi, se ci pensiamo bene, ho lasciato il mondo vegetale, non sono più lo sous chef di Guidara che mi ha permesso di avere una visione e un background molto ampio sul comparto delle verdure, e sto puntando su matrici proteiche animali.

Il tuo passaggio a Rimini da Jacopo Ticchi? – Ho trascorso alcuni mesi nelle cucine di Jacopo Ticchi alla Trattoria Da Lucio a Rimini per affinare le tecniche di lavorazione del pescato e in particolare  la stagionatura del pesce. Un passaggio fondamentale. Con Jacopo mi sono trovato subito bene. Ho avuto un’intesa perfetta. Sono arrivato umilmente come stagista e mi sono trovato a fare il capo-partita. Jacopo mi vedeva come una risorsa. E lo devo ringraziare per aver avuto una nuova visione del pesce che va oltre la sfilettatura del fresco e l’abbattimento.

Di solito uno va in pescheria e cosa chiede? Del pesce vecchio…  è ormai passato di modo il pesce fresco? – Partiamo dal presupposto che per me il pesce fresco non lo batte nessuno. Ci sta consumarlo dopo una maturazione se si vuole concentrarne il gusto.

D’accordo: con la stagionatura scopro nuove intensità e sperimento strutture più complesse. A questo punto la sperimentazione si spingerà a fare dei salumi di verdura? – Non pongo limiti alla sperimentazione. Forse ci si è già arrivati.

E’ semplicemente l’ego dello chef che emerge come nel caso dell’architetto che vuole orgogliosamente costruire la torre più alta? – Dipende da quello che sei. Vuoi dimostrare una particolare abilità nell’uso delle tecniche? Vuoi dimostrare di saper cavalcare l’onda di una moda? O vuoi raggiungere dimensioni del gusto inesplorate? A volte usiamo la tecnica per sentirci forti e migliori di mani meno abili in cucina dimenticando che l’obiettivo è il gusto, non dimostrare le perizie tecniche che ci portano al gusto.

Non si tratta di esibire una tecnica – La tecnica è solo il mezzo per arrivare al gusto. Non me ne faccio un vanto. Preferisco raccontare il gusto. Anche la spiegazione dei miei piatti voglio siano concise e non c’è l’ego dello chef che impone l’ascolto delle tecniche usate in cucina per dimostrare la propria bravura.

Cosa cambia tra stagionare della carne e stagionare del pesce? – Gli enzimi lavorano nello stesso modo nella carne e nel pesce. Mentre nella carne otteniamo morbidezza nel pesce otteniamo maggiore consistenza. Ieri ha assaggiato l’ombrina: la pelle era molto più croccante; l’aromaticità era più ampia a causa della perdita dei liquidi.

Nei salumi l’aggiunta di grasso tagliato più o meno grossolanamente prima o dopo la macinatura della carne è determinante. Nel caso del pesce? – Non si usa aggiungere grasso. Il prodotto che ottengo è quasi sempre, se mi passa la parola, una bresaola.

E’ quindi fondamentale soddisfare edonisticamente i propri clienti in termini sensoriali? Io non vado in uno stellato perché voglio mangiare un piatto buono, e con questo intendo un buon risotto o un buon arrosto. Certo, se un piatto è gradevole al palato meglio. Vado per fare un incontro con lo chef, per conoscere una storia di cucina e lasciarmi emozionare. Se la visione di un piatto è affascinante posso, entro certi limiti, far passare in secondo piano la bontà. Come con il Surrealismo in pittura dove tutto è fatto di irrazionalità e sogno, e penso a Mirò e al suo Il Mangiatore di Sole, la bellezza sta nella fascinazione dell’opera, nella sua capacità di andare oltre la realtà (sur-réalité), non nella bontà della rappresentazione. Quel mangiatore lo disegnerebbe anche un bambino.  Non è tanto la qualità del significante ma il valore di significato che viene trasmesso. – Per me è così. Si possono utilizzare tecniche ma conta sempre il palato. Se impiego dieci giorni per fare una lavorazione ma il cliente dice che un piatto “non è buono” all’assaggio ho fallito.

Come soddisfare il gradimento dei miei clienti visto che vale la regola “ogni testa una preferenza”? Se hai venti coperti hai venti preferenze. – Entra in gioco la bravura dello chef di raggiungere il gradimento di più clienti possibili. Noi portiamo in tavola piatti i cui gusti sono alla portata di tutti. E sono certo si possa ugualmente affascinarli.

In medio stat virtus? – In fondo sì. Giocando con acidità, freschezza e dolcezza posso raggiungere un ampio spettro di persone. Il mio compito è quello di far mangiare le persone. A Il Cappero vengono turisti che vogliono mangiare e vogliono mangiare bene. Non voglio passare tutta la serata a spiegare loro quello che faccio perché se i clienti comprendono l’importanza del mio menu attraverso lo stupore per  le tecniche e il riconoscimento dell’abnegazione nel lavoro della brigata ma non è stata un’esperienza che ha fatto godere il loro palato non ci siamo. Io preferisco mi dicano “è stato buonissimo” senza che ritrovino la tecnica. Se poi ho un cliente gourmet interessato è un piacere spiegare l’arte della cucina ma a Il Cappero si deve poter vivere la serata con un certo disimpegno e mangiare bene comprendendo le linee di pensiero che muovono il nostro lavoro. Tutte le tecniche, è i tecnicismi, sono nostri e solo nostri. Ci vuole una certa dose di leggerezza.

Anche perché un cliente non sceglie il Therasia per la cucina ma per l’hotellerie. Della struttura cosa colpisce: la location, le coccole del personale, i servizi…la sostenibilità. Cook more plants (il vangelo vegetale di Guidara) o la cucina monoproteica di Pagnotto sono dei plus che qualificano un’offerta dopo che si è già scelto di alloggiare al Therasia. – Vivere a Vulcano porta però a pensare in un’ottica sostenibile. Io ho tolto tutte le cotture lunghe dalla carta per una ragione di lotta agli sprechi e per una ragione di amore  per l’isola perché non ha senso tenere acceso un forno molte ore per arrivare a un gusto che si può ottenere con una tecnica alternativa meno invasiva. Da qui l’esigenza di adottare uno stile di cucina molto concreto, sostenibile e puro perché in un’isola ci sono pochi prodotti a disposizione, le consegne sono limitate, non ci si può permettere di sbagliare una preparazione. Quando ho bisogno del pesce chiamo il mio pescatore in mattinata e l’indomani, se tutto va bene, Antonio mi porta il pescato. Oppure se ho il mio giorno libero usciamo in barca assieme e peschiamo. Non è come avere un mercato del pesce cittadino. E non voglio nemmeno appoggiarmi a aziende che fanno commercio all’ingrosso.  Ieri hai mangiato l’ombrina mentre due giorni fa c’era la spigola. La tecnica e la preparazione è la stessa. Può variare il pesce in funzione delle catture.

L’isola porta all’essenziale, con me sfonda una porta aperta vivendo un’isola ancora più piccola come Linosa. – L’isola è pura, semplice e anche la mia visione di cucina non può che essere pura e semplice.

In un’isola quello che c’è deve bastare e deve bastare a lungo perché la sopravvivenza, anche in un’isola vissuta in tempi moderni, conta. – Non avrebbe senso mettere in carta ‘ostriche e foie gras’ a Vulcano. Mentre capperi, triglie di scoglio, cernie e cerniotte sì.

Sa cosa ieri sera è stata una serata magica anche per una circostanza che penso non sia stata studiata né dall’architetto né dall’interior designer né dalla proprietà. Il mio tavolo guardava il mare e dalla scogliera su cui pranzavo si vedeva Lipari nella sua dimensione più ancestrale. La brigata come ben sai cucina alle spalle dei tavoli affacciata sulla sala e per un gioco di luci si proiettava a cucinare sospesa nel mare con una luce vivida che la poneva tra cielo e mare come un’icona luminosa. Senza volerlo questa immagine è espressione di quanto siate sospesi e allo stesso tempo calati nel mare. L’avere poco… – Ti permette di avere tanto

Esattamente. Aprendo l’infinitamente piccolo avessi un microscopio che magnifica il microcosmo troverei un’infinità di mondi che mi aprono possibilità infinite. – Qui ritorniamo all’importanza di avere una mente aperta. Bisogna sapersi adattare perché la vita su un’isola non è facile. Ma nel momento in cui si entra in simbiosi con l’isola si diventa parte di essa. D’inverno vengo più di una volta a Vulcano.  Per rimanere in simbiosi con l’isola, cosa che permette poi di vivere bene sull’isola d’estate. E’ una questione di affiatamento che permette di portare avanti un progetto che rappresenti il mio pensiero e allo stesso tempo l’isola. Così facendo porto avanti il lavoro di Francesco, il nostro pescatore di gambero rosso, di Antonio, il nostro pescatore in apnea, di Marco, il nostro pescatore che porta le alici da Catania. Sono tante le cose che permettono di vivere bene, far vivere l’isola e far percepire al cliente una visione fondamentale integrata.

Ami Vulcano e la Sicilia. Alla Basilicata che ruolo rimane? – Io sono partito da casa per la Sicilia il 28 settembre dopo aver compiuto 18 anni il 25 dello stesso mese. Quella voglia di tornare a casa c’è sempre. Come per tutte le cose che lasci c’è sempre una presenza e un richiamo. In fondo sì è vero: la Basilicata chiede che io ritorni. E’ un territorio ampio che permette di vivere bene e stare bene e, se uno vuole, di fare un’ottima cucina perché non manca nulla. Per ora però voglio concentrarmi sul mio progetto e sul Therasia che mi ha dato la possibilità di mettermi in gioco in un contesto che è unico.

Non si diventa quindi siciliani… – Solo per adozione

Si mantiene una radice lucana? – Le radici sono fondamentali. Non devi mai lasciare le proprie radici.

Si parlava di sostenibilità. Riuscite davvero a fare autoproduzione qui al Therasia? Siete in qualche modo autosufficienti? – Riusciamo a fare autoproduzione perché abbiamo un orto. Non è autosufficiente quando riapriamo la struttura ad Aprile. Non possiamo avere i pomodori maturi all’inizio della primavera.  Però certamente lo siamo all’80%. Per carne e pesce non facciamo produzione propria ma ci appoggiamo ad allevatori e pescatori locali.

Dei vari passaggi formativi nei ristoranti in cui hai lavorato cosa porti nella cucina de Il Cappero e cosa preferisci lasciare fuori? – Non rinnego nulla perché anche le esperienze peggiori che posso avere fatto mi hanno portato ad essere quello che sono. A ventiquattro anni ho un mondo da esplorare. Non sono affatto arrivato. Ma ho voglia di mettermi in gioco.

Sei in un ristorante che ha ottenuto la stella anni fa. Ansia da prestazione e quali pressioni per confermarla? – Più l’ansia di non farcela. Perché so bene il mio valore ma so anche che sono giovane e ho infinite cose da imparare. Non ho paura di riconfermare la stella benché il mio compito sia quello di mantenerla al fine di consolidare il progetto della Proprietà.  Prima che accettassi di guidare la cucina de Il Cappero ho parlato con il direttore e ci siamo detti che questo nuovo progetto avrebbe potuto avere bisogno di tempo perché la brigata era nuova, c’ era un nuovo pensiero culinario grazie alla cucina  monoproteica che poteva disorientare chi a Il Cappero fosse gia stato in passato.

Il passaggio al Noma mi incuriosisce sempre come mi incuriosisce sempre l’esigenza di un foraging molto aggressivo, primitivo nella ricerca  di materie edibili estreme, quasi cinico nella sua esigenza di portare in tavola un cibo che travalica il comune senso del pudore. Certe scelte d’artista d’avanguardia in fondo al Noma sono imposte da un territorio austero e avaro nell’offerta. – Del Noma bisogna saper prendere il metodo e applicarlo alla ricchezza di materia prima che la Sicilia e l’Italia ha mentre il Nord Europa ha meno. Applichiamo il concetto di ossidazione al vino che impieghiamo nella preparazione del coniglio; prendiamo le tecniche di fermentazione che ci possono servire nel raviolo. Se riuscivamo a fare piatti meravigliosi al Noma avoja se ci riusciamo noi in Italia con il ben di Dio che il territorio ci mette a disposizione.  Parti, guarda e porta a casa.

Non avrebbe senso usare a Vulcano una corteccia… – Non sarei me stesso.

Cambi spesso menu? – Per perfezionare un menu ci vuole tempo e risorse economiche. Se cambiassi menu ogni anno non riuscirei a perfezionare i piatti che servo. Ci deve essere un bilanciamento tra i piatti che funzionano, e si mantengono nel menu, e le novità. “Alice e garum” è un piatto che funziona. Non cucino le alici in un altro modo.  Preferisco fare una versione 2.0 e successivamente 4.0. di “Alici e garum” Il crudo di seppia sarà per esempio servito  in una versione 2.0 con pil pil di seppia e verdello siciliano. Alcuni piatti saranno aggiornati e serviti  dalla fine di giugno. Pensa a Bottura: lui fa un menu con i piatti storici.

Ma la genovese di ieri sera nel “Bottone all’uovo” era di gallina vecchia? – Sì, sì. Abbiamo una versione al tonno per i pescetariani ma cambia la consistenza del ripieno. La lunga cottura della carne di gallina vecchia è una cosa; diversa è la cottura lunga del tonno.  Però dobbiamo rispettare le diete e le intolleranze. A volte mi sembra di stare nella cucina di un ospedale.

Quanto si è nudi quando si cucina? Parlando con Guidare ho saputo che sei vestitissimo ai fornelli. – [Ride]…

Tu non mi hai proposto una copertina di Qualitaly magazine nudo e interamente dipinto di verdure…al di là del tuo carattere che è meno estroverso di quello di Guidara quanto riesci ad aprirti ed esporti, a diventare un uomo da palcoscenico? Oppure rimani riservato e lasci all’ospite l’ambizione di scoprirti attraverso i piatti che servi? – Devo essere scoperto a piccole dosi. Non sono estroverso. Non mi metto in mostra. Non sono per natura un personaggio televisivo.

A volte non si accetta l’idea di costruire con pazienza un rapporto. Siamo in una società che fa della velocità una priorità. I consumatori vogliono tutto e subito. Paul Seeeney, economista irlandese, una volta disse, provocatoriamente ma non troppo, che una società che si fonda su sughi pronti, ricette di torte veloci, cene surgelate, e fotocamere istantanee, non può insegnare la pazienza ai suoi giovani. – In fondo rimango un uomo antico. Ho bisogno di tempo per mostrarmi anche in una società che va veloce.

Uno chef dovrebbe forse mostrarsi… – Dovrebbe ma non sono io. Preferisco cucinare. Mi piace cucinare. Se lo chef emerge oltre i piatti si rischia di mangiarsi lo chef prima ancora del  piatto. In realtà l’attenzione dovrebbe essere  tutta sul piatto. Non voglio che lo chef cannibalizzi il suo piatto.

Tu entri nella vita degli altri in punta di piedi, quasi scusandosi della tua presenza. [accenna un sorriso che sembra essere di conferma] Guidara sembra invece essere nato per il palcoscenico e per la televisione. – L’ anno scorso abbiamo girato diverse puntate per Gambero Rosso Channel (per il programma ‘La mia rivoluzione vegetale) e siamo usciti pazzi. Lui sa essere divo. Io molto meno.

Le due anime come convivono? – Come dice il nostro direttore io sono l’anima razionale di Davide. Ma non pensare che la parte razionale sia necessariamente sottomessa alla parte estroversa. Siamo l’uno la forza dell’altro e c’è un comune accordo. Ci comprendiamo a vicenda. Non abbiamo mai litigato e non ci sono stati scontri epocali.

Perché la ragione compensa il fuoco dell’estro? – No, non penso. Ci vuole capacità anche da parte sua per entrare nella mia parte riservata. Per me non è mai facile parlare della mia sfera più privata. Anche se ti dico che dormendo nella stessa stanza e lavorando h 24 con Davide alla fine un’apertura c’è anche da parte mia. Siamo come fratelli. Uno riservato e uno estroverso.

Vale il detto “ quello che ho da dirti passa attraverso le mie mani” per uno chef? O passa dal cuore o dalla mente’? – […ci pensa] … dalla mente. Se passasse dalle mie mani è come se agissi senza pensare.

In cucina quanto spazio può avere la spontaneità? – Una sola volta nella vita ho agito senza pensare e mi è andata molto male. Scherzi a parte. È soggettivo. Io preferisco ragionare bene e se posso, riflettere a lungo prima di agire. Una risposta istintiva che si riveli al tempo stesso saggia non so se sia possibile.

Mi spaventano molto i giovani che… – … pensano?

No! Al contrario. I giovani che riescono a controllare le emozioni al punto da essere  adulti prima del tempo fisiologico della maturità. Essere vinti dal fascino della bellezza di correre a fari spenti nella notte come diceva Battisti e una dimensione essenziale per vivere pienamente la giovinezza…senza poi magari cedere alla tentazione di mettere a rischio la propria sopravvivenza. – La spontaneità ancora conta, almeno in amore. Non siamo così guerrieri e tantomeno Spartani.

Anche in un contesto in cui si cerca giustamente  la perfezione l’errore può capitare – L’errore ci sta e bisogna imparare a gestirlo. Certo, dipende da quante volte si sbaglia, dalla frequenza con cui un errore si ripete e dai motivi per cui lo si commette.

Se dovessi dire ai lettori di Qualitaly Magazine perché venire a Il Cappero? – Sarò banale nella risposta. Perché puoi sperimentare una filosofia di cucina diversa da quella che puoi trovare in un ristorante di Milano o di Roma.

In cosa si differenzia? – Per la filosofia di gestione e di utilizzo delle materie prime. E direi per il gusto, grazie alla ricerca che applichiamo alla sua esaltazione. E per il fatto che si deve mangiare bene. La ricerca per la ricerca esalta solo l’ego del cuoco.

Come ti ho detto questo colpisce. Perché c’è un pensiero filosofico che guida, c’è tecnica, c’è  sperimentazione eppure rimane il comfort del buon cibo che non è un minuendo anche in una cucina d’elite come questa. – Mi fa piacere. Per me conta molto vincere con i piatti anche in un contesto di assoluta bellezza come il nostro. Se vinco solo per l’affaccio sul mare starei sbagliando qualcosa.

Come chef si. Staremmo premiando la bravura di un architetto e di un interior design. Uno chef riservato come te come vive l’apertura della cucina? – La chef table non ti permette di sbagliare.

Ti crea ansia? O la tensione ti carica a tal punto da produrre un risultato migliore? – Ho fatto un anno di chef table a I Tenerumi. Ci si abitua. E ci si abitua al punto da riuscire ad entrare in sintonia con il cliente. Con Davide abbiamo creato una cucina estremamente standardizzata per ridurre al minimo la possibilità di errore. Abbiamo un ricettario che è ricco di particolari e annotazioni che guida con precisione ogni gesto. Ma non per questo viene a mancare la parte romantica della cucina perché è per amore della cucina che si ripete ogni gesto con precisione fino alla noia per rendere una preparazione un atto naturale di sequenze quasi meccaniche seppur non robotizzate.

Una chef table che trovo spesso molto silenziosa. Priva di quel dialogo che è il rumore di fondo di quando cucino con mia madre. – Forse perché la rumorosità e il parlato che ci aspettiamo in una cucina è molto televisivo…o richiede l’intimità del focolare.

Ti dico la verità che alla chef table di Guidara gli ordini ci sono – La cucina deve essere ordinata,  maniacalmente ordinata, per azzerare gli errori. Non c’è molto spazio per un parlato romantico che in qualche modo distrae quando il compito dello chef all’interno della brigata è evitare che un errore accada.

Così però mi sa tanto di catena di montaggio – No. Un cliente paga e non poco. Non sono ammessi errori.

Capisco. Forse sono per umanizzare la cucina stellata. La piccola imperfezione dà un senso di artigianalità che mi salva dall’industrializzazione. – Certo. E all’inizio il bottone di gallina si apriva. Eravamo ancora in una fase di studio. Giuseppe mi arrivava sconsolato dai tavoli. Ricordo ancora il suo  “ chef si è  aperto”. E sistemiamolo. Ci mettiamo l’uovo sopra e non succede nulla perché il gusto quello è. Aperto o chiuso non cambia. Però mi impongo di essere il più perfetto possibile e ora, infatti, il bottone non si apre più. Il cliente deve avere il piatto perfetto.

Certo che così facendo “Ops mi è caduta la crostata di limone” non sarebbe diventata un piatto famoso – C’è un bellissimo racconto in quel piatto. Ma io non voglio raccontare. Voglio dimostrare.

Raspi, Aglio e Pomodoro è un piatto a te caro… – Con questo piatto ho partecipato a “Primo Piatto dei Campi 2022”, iniziativa siglata da 50 Top Italy e Pastificio dei Campi. Ci vogliono mezze maniche rigate, pomodori del Piennolo fermentati con cui fare la salsa, crema di aglio ossidata. Si cuoce la pasta al dente e si compone il piatto con le mezze maniche, la salsa di pomodoro arrosto, la crema di aglio ossidata. Si completa con olio ai raspi e cime di basilico.

Si gioca tutto sull’ossidazione dell’aglio e sulla preparazione dell’olio ai raspi. – In realtà la preparazione della salsa di pomodoro è un passaggio importante. Certamente colpisce l’uso dell’aglio e la produzione dell’olio ai raspi.

Utilizzi l’aglio che dà normalmente solo gusto a una ricetta come ingrediente principale. La filosofia di Guidara si sente tutta. – Con tecniche opportune e i giusti tempi anche l’aglio può esprimersi totalmente. Questo è uno dei tanti insegnamenti di Guidara. Quando pensi a una tecnica pensa a cosa vuoi ottenere. Finalizza la tecnica al gusto.

Ci sveli qualche segreto di questo piatto? – Si devono ossidare le teste d’aglio per 20 giorni a 45°C per poi frullarle con acqua e sale fino ad ottenere una crema liscia. I pomodori del Piennolo sono fermentati in salamoia in comodi barattoli per venti giorni. Preparare la salsa non è complicato. Bastono piccole attenzioni: tagliare i pomodori fermentati e farli macerare in olio, aglio e basilico; passarli velocemente sulla brace calda per poi cuocerli al forno a media temperatura; frullare i pomodori così preparati avendo l’accortezza di fare restringere la salsa sulla fiamma viva.

Per l’olio ai raspi? – Si tagliano i raspi dei pomodori e si mettono sottovuoto con olio evo. Si cuoce a 85° per un’ora. Si raffredda e si filtra.

Un piatto che sottrae tutto il superfluo per esaltare il gusto. – Un piatto che ricerca la purezza del prodotto. Ossidazioni e fermentazioni estraggono la verità gustativa degli ingredienti

****************************************

Gallina e Uovo entra a far parte del tuo nuovo menu – È un piatto che richiede una lunga preparazione ma che ha note sensoriali facilmente comprensibili.

La Genovese richiede i suoi tempi – Per definizione. Si deve disossare la gallina e tostare leggermente la carne in una padella rovente.  Poi si sbucciano le cipolle, si tagliano molto sottili e si stufano in un rondeau. A questo punto si aggiunge la carne e si sfuma con vino bianco. Poi si bagna con il fondo, si aggiunge la cannella e si cuoce per dieci ore sulla brace. Non esageriamo con la cannella, a meta cottura la togliamo, perché già la brace dà note affumicate intense.

Una Genovese con un accento gourmet – Un twist di gusto ma senza stravolgimenti.

La pasta di solo albume stravolge in parte una preparazione che ha radici profonde nella cucina popolare. – Non ci sono tuorli nell’impasto. Solo albumi farina 00 e semola di grano duro in un rapporto di due a uno. L’impasto viene lasciato a riposare in frigorifero almeno un giorno.

Tuorlo coagulato… – È una pasta ripiena in cui il tuorlo coagulato la riveste. Per preparare i tuorli  dobbiamo riporli sotto sale e zucchero per 6/7 ore. Successivamente li sciacquiamo e li lasciamo asciugare a 65° per 48 ore.  Si affumicano e si grattugiano fino a ricoprire la pasta.

Burro fermentato, glassa di aceto e lampone… – Il burro utilizzato nella ricetta è lasciato fermentare in una salamoia di acqua e sale per venti giorni. La glassa di aceto al lampone  è aromatica grazie al ginepro, il lampone, la salsa di soia e un fondo di pollo ristretto. Lo zenzero dà note piccanti.