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L’opulenza della colazione del Grand Hotel Principe di Piemonte. – di Gianluca Donadini

Salgo da Lajatico, borgo che amo della Valdera. Viareggio è oltre Pisa e in una mattina di settembre temo il traffico. La FiPiLi ha le sue criticità specialmente in uscita a Pisa mentre la statale della Valdera ha il suo via vai che per noi lombardi è poca cosa. Siamo a Viareggio di prima mattina. Dal mare le colline di Massarosa, Casole di Camaiore e Monteggiori sono ombreggiate da nuvole imponenti mentre Viareggio ha una spiaggia che si sta risvegliando, i bagni immersi in un timido sole traverso e nella operosità meticolosa dei bagnini che assettano l’arenile apparecchiandolo per la giornata a mare. La Passeggiata con i suoi contrasti tra Decadentismo e Razionalismo che ne hanno raffigurato la cifra stilistica alla sua nascita ha un suo fascino anche in un tempo di mezzo in cui la stagione si sta spegnendo. Malgrado l’autunno si avvicini non è difficile riviverne i fasti leggendo le parole misurate di Tobino o lasciandosi alle immagini di una cinematografia di un Dino Risi ispiratissimo ne Il Sorpasso che hanno celebrato questo viale amplissimo per tutti sinonimo di Carnevale, di mare di una riviera dalla vocazione turistica antica grazie alla predilezione di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, che aveva la sua villa proprio qui. Ma Viareggio, città di marinai, maestri d’ascia e calafati, del porto e dei canali, delle case ‘viareggine’ a un piano, con cortile interno, passetto e casetta in fondo all’orto,  con lo sviluppo della talassoterapia e delle cure elioterapiche, il fascino  e la moda dei bagni a mare,  il mito della mens sana in corpore sano in gran voga nel Ventennio, acquista una vocazione turistica che porta glamour, vita mondana, jet set in ‘quell’ambiente meraviglioso, la magnifica spiaggia e la scintillante illuminazione’ coordinati da cinema, caffè e un hotellerie elegante.  A questo fermento vitale si associa il fascino dell’opera, Viareggio è città della musica, come dimenticare Puccini che a Torre del Lago aveva casa e ha composto le sue liriche più belle, delle pinete, quella di ponente e quella di levante che scende fino alla tenuta di San Rossore, del calcio con la coppa Carnevale e dell’editoria con il Premio Viareggio.  Il Grand Hotel Principe di Piemonte è il simbolo di Viareggio stazione balneare d’eccellenza di quella Epoca Bella che ha segnato con gli stilemi del Liberty la Versilia, quella dei grandi alberghi frequentati dalla ricca borghesia e dagli aristocratici che facevano della costa toscana una meta turistica d’eccezione: il De Russie oggi Plaza, il Regina, il Royal, il Mediterranée oggi Palace, l’Astor, l’Imperial, la Pace, il Majestic, la Pensione Pini. Ma è il simbolo di una moderna hotellerie sopravvissuta magnificamente ad un secolo e più di storia, che fa sua una ricetta che combina il fascino glamour del passato con la modernità di una filosofia d’accoglienza precisa ed elegante, capace di stare al passo coi tempi.

La miglior colazione d’Italia – La miglior colazione d’albergo 2024 è servita proprio al Principe di Piemonte. Nato nel 1922 come Hotel Select su progetto di De Micheli e Giovannozzi, diviene Principe di Piemonte in onore di Umberto di Savoia, futuro Re d’Italia, poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.  Cinque piani, 80 camere, 32 suite, ricorda nella struttura gli alberghi della Costa Azzurra con le pareti che confluiscono in una facciata d’angolo arrotondata. Cattura fin da subito l’attenzione con servizi all’avanguardia come i primi apparecchi telefonici, una lavanderia automatica e l’acqua calda nelle camere. Il Principino, architettura razionale a mare, come il regime volle gli edifici lungo la Passeggiata verso Camaiore a simbolo di salubre nerborutezza dell’italianità idealizzata dell’epoca, cura i servizi leasure dando ordine alla spiaggia con i suoi archi metafisici, le sale convegni e i bagni che richiamano una nave. Notoria è la cura e l’eleganza dell’accoglienza e dei servizi di cui godono gli ospiti de Il Principe. E l’Hotel è altrettanto celebrato per i servizi di ristorazione. Bistrot, bar e ristorante curano un’offerta di classe grazie alla quale il cliente trova spazio per un incontro mai banale con una cucina gourmet di altissima tecnica e di sinceri affetti, rispettosa senza essere rinunciataria, dove si beve bene e si può oziare con la chiacchiera bella sorseggiando un 101 di Simone Corsini. Nella veranda il Principe ospita un ristorante bistellato guidato da Giuseppe Mancino, un passato con Raschi, Iannone, Ducasse, Gualtiero Marchesi e una permanenza ventennale, quasi un record, qui al Principe. Mancino è campano di Sarno e le radici contano nella sua cucina. Ma sa essere toscano e cittadino del mondo, viaggiatore poliedrico, prestigiatore capace di fondere con rispetto e attenzione elementi di lontane culture, l’Asia tanto amata soprattutto. Si porta all’eccellenza la tradizione senza paura di svecchiarla quanto basta perché la rivisitazione non risulti un tradimento. E gioca con l’illusione, si pensi al ‘finto manzo’ piatto iconico in cui l’anguria si finge da carne con una credibilità difficilmente smascherabile anche dal più attento avventore.

Il Liberty… ma non solo. – La ristrutturazione dello studio S+S di Firenze è tutt’altro che invasiva. La reception de Il Principe rimane essenziale e non toglie spazio alla bella scalinata dove danzano carpe koi intessute in una elegante passatoia alla luce di uno scenografico lampadario di Murano che nella sua presenza ha leggerezza unica.  Al piano terra ci sono diversi spazi intimi e singolari, dalla Sala Cinese, che evoca il viaggio e l’esplorazione, alla Sala Guttuso, che ospita la collezione di quadri ‘Lo Zodiaco’ del maestro. Elementi di arte moderna trovano spazi di luce o di forma, dipende dai casi, che dirigono l’attenzione. Così Coleoptera Green di Stefano Bombardieri, è un magnifico scarabeo verde che sovrasta la porta che immette al bar; Setole di Francesca Pasquali irrompe con filamenti di spazzole sintetiche attentamente disposte che spuntano come elementi cromatici blu e gialli sinth pop; Stati di Allerta di Emanuele Giannelli sono l’elemento guardingo che scruta l’esotica sala cinese.

 Uno chef che ha ottenuto due stelle si occupa delle colazioni. – Giuseppe Mancino è uomo schietto e sincero. Quando lo incontro nella sala del ristorante Il Piccolo Principe mi confessa che: Tutte le mattine ho la fortuna di vivere la colazione. Sono uno dei pochi chef stellati che ha quotidianamente il piacere di servirle. È il mio modo di dire grazie all’ospite. Ed è un piacere quando un ospite, questo capita principalmente con gli stranieri, entrando nella Sala degli Arazzi prova un’emozione molto forte, di stupore e meraviglia. Mi fa impazzire questa reazione e mi riempie di gioia. Confesso che siamo fortunati. Ho una Proprietà che mi mette a disposizione ogni mezzo per farmi divertire e stimolare la brigata e far vivere un’emozione agli ospiti. Per questo tutto deve essere perfetto e, malgrado l’eccellenza della nostra colazione, cerchiamo di migliorarci continuamente’.

Il personale di sala conta e fa la differenza. – Siamo nella Sala degli Arazzi. Gli spazi sono studiati per garantire privacy senza eccessivo isolamento. Il personale di sala ha cortesia e professionalità, opera con sinergia e offre un servizio personalizzato con cura. Lorenzo e Rossana comunicano con sguardi, sorrisi e la giusta parola in un’equilibrata gestione della comunicazione verbale e non verbale. Coinvolgimento, interesse, empatia, fascino, disinvoltura: l’accoglienza del personale di sala ha la stessa malia stilistica dei servizi de Il Principe senza cedere nulla sulla cifra della personalità di Lorenzo e Rossana che emerge sicura, pur non essendo né esuberante né invadente. Il successo di una colazione perfetta nasce da qui, dalla naturale empatia della sala che ha una parola sulla musica di sottofondo (si discute con Rossana degli autori e delle scelte stilistiche), sulle decorazioni (la libellula è elemento decorativo che mi ritorna nel Liberty),  sugli arredi, sulla scrittura ( di quanto apra e sveli e si debba superare un certo senso di pudore per scrivere) e sul train de vie di Viareggio e sull’inclusività della Versilia per chi vi si trasferisce per lavoro o per amore, o, sulle scelte professionali cui la vita ci costringe o cui costringiamo le nostre vite. C’è passione nei ragazzi e si nota. C’è piacere nella condivisione. C’è interesse all’ascolto dell’altro, partecipazione al proprio racconto, senza che questo sia un esercizio sterile di maniera. Con Lorenzo facciamo una panoramica del buffet e dei servizi à la carte e non potremmo avere padrone di casa migliore nello svelarci vizi segreti e pubbliche virtù della colazione a Il Principe.

Un ricco buffet – Abbiamo sia special del giorno come la zizzona di bufala con acciughe e limone che piatti del giorno come il blignis con il caviale e la panna acida. La stazione del sushi è preparata alla minuta con i nigiri e gli uramaki e le salse di accompagnamento che sono di una lineare bellezza. Arricchiscono l’offerta zuppe di miso, il ramen, mazzancolle e scampi, cicale al vapore o insaporite con aglio, olio e peperoncino; il salmone Balik, le ostriche. La sezione centrale è dedicata alla pasticceria prodotta dal laboratorio interno. Non si contano le torte e gli sfogliati, plain o con pistacchio, creme o cioccolato.  Spiccano la frangipane alla pesca, la finanziera ai frutti rossi, i bignè, le tartellette alla frutta. Le pesche di Prato, fascinose per bellezza, riprendono una celebrazione molto patriottica che ha rischiato per anni di andare perduta. Abbiamo waffles e pancake, cookies con macadamia e cioccolato. ‘La nostra selezione di cereali e frutta secca è ricchissima per una vera esperienza macrobiotica così come ricca è la scelta di yogurt, sia sfusi sia confezionati, e la selezione di latti’. Non mancano tortillas di ogni tipo, verdure cotte e crude. Centralmente alla sala, imponenti vasi di fiori si alternano a sculture di cioccolato, maestose opere del maître chocolatier Riccardo Patalani, nato artista e scultore del bronzo grazie ai trascorsi all’accademia di belle arti di Carrara e ora al servizio della storica pasticceria di famiglia di via Zanardelli qui a Viareggio. Aumenta la presenza degli ospiti mediorientali ed ecco che si introduce un corner dedicato a hummus, cous-cous, falafel, chicken kabsa, babaganoush, salsa sriracha che più che mediorientale è tailandese, datteri.

Ci sono il roastbeef, salsicce di pollo e di suino, bacon, uova di ogni tipo servite in soffici nuvole, nella scenografica versione alla carbonara, fritte o strapazzate, poché o nel trionfo della coloratissima piramide delle sode cotte 4 minuti. Le omelette sono tutte preparate al momento e ordinate à la carte.

I lievitati giocano sulla qualità delle farine e i tempi lunghi delle lievitazioni. Nessuno ha fretta. La selezione di pani è ampia, disegna un excursus sui pani toscani e fa una rivista dei pani siciliani per passare a pani al latte, con farro e noci, pomodorini, uvetta, cacao, curcuma, sesamo. Ci sono grissini e la tipica schiaccia.

I formaggi sono in un crescendo di gusto. Si passa dai formaggi spalmabili alle mozzarelline, ai nodini, alle robioline, alla feta, al brie, ai pecorini, all’asiago, all’emmenthal, allo stracchino, al blu di bufala, alla ricotta del pastore per finire con la selezione di formaggi francesi tenuti giustamente sotto campana di vetro per controllarne l’aromaticità.

Il banco delle crudités è un trionfo di frutta e verdura di ogni tipo. Possiamo costruirci insalate personalizzate per goderne i piaceri della masticazione o centrifugati che ne estraggono l’essenza più salubre e nutriente. Ananas – zenzero – mela verde, acero – arancia – limone – carote, spinaci – sedano – finocchio e cetriolo sono i mix studiati e già pronti per la consumazione.

La colazione è un importante biglietto da visita – ‘In un contesto d’hotel la colazione è un biglietto da visita’ mi confessa Giuseppe Mancino. ‘Considera che il 95% dei clienti passa dal Salone degli Arazzi ogni mattina: camere e colazione sono due punti chiave per la valutazione di un hotel, di cui tutti fanno esperienza e su cui tutti possono esprimere un giudizio. Pur avendo un ristorante bistellato e un bistrot importante a cote dell’infinity pool del roof top abbiamo bisogno di un passaggio decisamente gourmet anche a colazione. È una scelta stilistica prima di tutto. Ma non solo. È ormai abitudine consolidata passare al Principe per il buffet della colazione pur non pernottando nella nostra struttura. È una coccola, una gratificazione che molti si concedono specialmente nei week end e la colazione deve essere glamour per riassumere in un pasto che è molto più di un brunch tutto l’allure del Principe di Piemonte se si vuole soddisfare le attese di chi vuole vivere l’atmosfera di sognante eleganza dell’hotel con un vero pasto d’inizio giornata o con un solo piatto iconico del mattino.  Non possiamo abbassare il tono della proposta riportando la colazione in un contesto di maggiore sobrietà giustificando la scelta con considerazioni sull’offerta già sofisticata di fine dining del nostro ristorante bistellato. Tradiremmo le aspettative di molti, specialmente dei tanti clienti che, ormai affezionati ai livelli qualitativi dello stellato, vengono a trovarci per i piatti più iconici della colazione con le stesse aspettative che ripongono nella cucina di chef Mancino che ritrovano ai tavoli de Il Piccolo Principe ’.

Qualità circolare – ‘Crediamo in un percorso di qualità circolare ed è per noi importante che la colazione sia una continuazione dell’esperienza del lusso senza interruzioni di continuità’. Continua Giuseppe. ‘Non vogliamo lasciare una zona di comfort più agile in cui il cliente si rilassi in un contesto casual pop’. In fondo cosa vuol dire lusso se non una raffinata squisitezza, eleganza, distinzione in cui il coinvolgimento emozionale non può che essere alto e intenso e attraversare ogni ora della nostra giornata.  Non ci vogliono cali di tensione e una diminutio emozionale. Abbiamo un servizio e un’offerta costruita attorno a infiniti piccoli dettagli che tengono alta la cura. E anche la colazione merita questo livello di attenzione. Pensi al burro di Normandia, al Parmigiano Vacche Rosse 30 mesi, al salmone Balik, al pata negra, al culatello, alla ruota panoramica che offre piccola pasticceria e cioccolati, al miele di spiaggia e alla frutta sciroppata tagliata a mano dove ogni pezzo è diverso e per questo unico. Sono, queste, cifre identitarie che descrivono il senso della qualità a tutto tondo del nostro servizio, ricco e opulento, educato e preciso. Tutto quello che facciamo è in sé ‘extra ordinario’ ma vogliamo che sia percepito come ordinario, come il quotidiano esercizio di un elevatissimo standard di qualità di materie prime, lavorazioni e servizio e non come l’eccellente eccezione, una misura emergenziale una tantum.

I feedback sono importanti – La clientela dell’Hotel è internazionale. Però anche quest’anno abbiamo molti italiani. Tradizione vuole che gli uni preferiscano il salato, gli altri il dolce. Ma i trend cambiano in un mondo che corre veloce.  I feedback per noi sono importantissimi per capire le esigenze di ognuno. Vorremmo che siano soddisfatte prima ancora che ci vengano segnalate in sala, se possibile. Non si deve mai porre l’ospite nella condizione disagevole di chiedere e di avvertire l’imbarazzo di essere di troppo o ‘sbagliato’ perché non trova nel ricco buffet da noi offerto quel cibo di conforto che ha il piacere di consumare.  Rendere ordinario lo straordinario è una filosofia che ci descrive bene.

La comunicazione con il tavolo – La comunicazione con il tavolo è fondamentale. Per questo il personale di sala ha un valore enorme nel successo con il cliente. Questi può essere più o meno empatico e sta al personale trovare una chiave di dialogo senza risultare troppo invasivi o troppo distanti. È sempre una questione di equilibrio che richiede una fine lettura e la capacità di sintonizzarsi con il mood dell’ospite. Il segreto è essere riservati con chi chiede discrezione riducendo il servizio ai gesti essenziali; essere l’amico della porta accanto, un confessore discreto di chi apre gli accessi più reconditi del proprio io. Gli Italiani rimangono culturalmente più portati a una colazione dolce malgrado la struttura dei nostri corner inducano all’assaggio e a sperimentare. Trovare una chiave di relazione che porti ad un dialogo può aprire le porte all’assaggio delle nostre uova, alle tentazioni del sushi, all’ ostrica, ai formaggi francesi e, perché no, ai corner culturalmente più distanti della cucina mediorientale anche ai più ostinanti amanti della colazione ‘dolce’. Ma ci vuole fiducia. Senza fiducia non si accetta la novità perché viene meno un affidamento. Benevolenza è forse una parola desueta che agisce però come una chiave di lettura dello spirito del nostro servizio che prende forma grazie a un interesse genuino verso gli ospiti, coltivando l’empatia ed offrendo un supporto concreto alla consumazione e all’assaggio.

Avere memoria – La permanenza degli ospiti è di un week end o di qualche giorno, difficilmente di una settimana. Ma c’è una fidelizzazione alta.  E quindi il welcoming deve fare memoria di ogni esigenza in vista di visite future, che sia un passaggio al nostro stellato, al bistrot o alla Sala degli Arazzi per la colazione. Gli ospiti devono sentirsi a casa, affidati a mani premurose. Abbiamo quindi il dovere di ricordare ogni preferenza fattasi desiderio se vogliamo che il soggiorno sia memorabile.  Pur studiando nei dettagli il profilo dell’ospite, il nostro servizio deve poter apparire naturale, come se il personale di sala conoscesse da sempre il cliente.  A partire da Rossana, fine affabulatrice, discreta presenza, attenta hostess di sala, una semplice chiacchierata è una preziosa occasione di conoscenza attraverso cui raccogliamo una serie di particolari che delineano il profilo del cliente e certificano la nostra attenzione nell’offerta di un servizio tailor made che viene percepito come una coccola, di quelle che normalmente ci si scambiano in famiglia. Per questo ci vuole attenzione, cura dei dettagli, amore. Quello che giustamente sembra un servizio naturale è il frutto di un lungo studio e di una lettura molto approfondita dei nostri ospiti. C’è studio, c’è costanza, c’è registrazione. Tracciamo e teniamo memoria. Perché c’è rispetto e ogni persona merita di essere ricordata. L’amore è anche fatto di annotazioni, di cura, di particolari.

I clienti sono metodici – Molti clienti sono metodici. Amano avere lo stesso tavolo, usare la stessa sedia, bere la stessa acqua. Bisogna annotare questi particolari che sono alla base del benessere individuale più di quanto crediamo. La scelta del tavolo, della seduta a tavola, del posizionamento del tavolo nella sala colazione e del livello di privacy che queste scelte garantiscono hanno profondi significati psicologici che dipendono dalla personalità dell’ospite e influenzano le risposte emozionali e di gradimento che determinano il benessere percepito di un’esperienza. Da etologo non posso dimenticare che siamo animali ogni giorno in lotta per la sopravvivenza, capaci di mettere in atto meccanismi comportamentali difensivi le cui radici profonde appartengono a quelle risposte evolutive che hanno garantito la sopravvivenza della nostra specie e grazie alle quali evitiamo stress, in luoghi pubblici come una sala colazione in cui, volenti o nolenti, siamo esposti a sconosciuti che condizionano il nostro agio di movimento.

L’attitudine alla cura – E l’attitudine alla cura la vediamo nell’idea che governa la gestione delle offerte gluten-free e free from più in generale. Nessun ospite deve sentirsi vulnerabile e la nostra idea di cura abbraccia questo concetto. Cura è una parola polisemica. Ma qualunque sia la matrice archetipica ed etica della cura, e le sue possibili divagazioni, la bellezza di questa parola sta tutta nella capacità della vulnerabilità dell’ospite di suscitare l’attitudine alla cura, come fosse una maternità. Una dieta gluten-free già di per sé stigmatizza una differenza, una vulnerabilità appunto, che non ha ragione di essere ulteriormente sottolineata. Ecco, la colazione del Principe cerca di garantire lo stesso diritto alla scelta e al gusto di chi non ha restrizioni, siano i clienti celiaci, intolleranti al lattosio o preferiscano culturalmente un regime alimentare non onnivoro.

Prodotti di qualità – I prodotti sono di altissima qualità. I salumi sono di Fracassi, tutti senza nitrati. Abbiamo una selezione di formaggi francesi, il pata negra al coltello, culatello e prosciutto cotto che costa come e più di un pesce pescato a mare, tre tipi di salmone (coda nera leggermente affumicato, nel welcome il balik, principe dei salmoni; nel sushi non abbiamo salmone norvegese sulla cui eticità di allevamento possiamo discutere ma un salmone scozzese). Si cerca l’eccellenza nel burro e nel cioccolato che è Valrhona. Il miele di spiaggia di San Rossore è un miele marino molto aromatico ricordando gli oli essenziali delle piante della macchia mediterranea da cui è prodotto: camuciolo, santolina delle spiagge, fiordaliso delle sabbie, verga d’oro delle sabbie, vedovino e i più diffusi tipi di cisto, che colonizzano gran parte delle dune costiere tra Marina di Torre del Lago, Marina di Vecchiano e San Rossore. Le verdure sono del nostro orto biodinamico o di produttori locali che utilizzano pratiche agricole che tutelano la terra e i raccolti. Il ‘km 0’ è un concetto in cui crediamo ma non lo applichiamo ciecamente: l’eccellenza è un concetto che si lega al territorio, a volte vicino a volte lontano dal Principe. E noi scegliamo l’eccellenza pur rispettando la sostenibilità degli approvvigionamenti.

Stagionalità dell’offerta e nobiltà della cucina povera – Le stagioni caratterizzano l’offerta della nostra cucina. Siamo quasi in autunno. Le castagne sono sovrane e in Toscana hanno una ragione storica essendo i boschi ricchi di eccellenze. Proporremo il neccio, una crespella di farina di castagne che può essere farcita con ricotta, miele e cioccolato ma che, nella sua semplicità, può essere un accompagnamento ai salumi. Gli ospiti riscoprono così una tradizione povera della cucina toscana che proponeva un uso intelligente, rispettoso e creativo degli ingredienti locali senza sprechi. Perché anche la cucina povera ha una sua nobiltà e un’educazione che le permette di sedere a fianco di preparazioni più aristocratiche senza sfigurare. È il caso di ‘Alici alla povera’ che, pur perdendo un rapporto di stagionalità mantengono viva la territorialità tutta labronica della ricetta e la popolanità della preparazione. Una ricetta multietnica che ha tratto definizione in quel melting pot culturale che caratterizzò Livorno grazie alle leggi livornine medicee che ripopolarono la città da ogni dove. ‘Le può trovare nel buffet centrale per un tocco di territorio vero’ mi suggerisce con garbo Lorenzo.

L’uomo che sussurra alle galline – Le uova sono della Gallus di Tavolara di Prato dove Simone Iannelli ha un pollaio multietnico che spazia dalle Livornesi alle Araucane, dalle Marans alle Olive Egger, dalla Moroseta alla Wyandotte. ‘Giochiamo sui colori dei gusci delle uova, e ce ne sono di bellissimi dall’azzurro al verde intenso, e sulla diversità di gusto e di consistenza’ mi fa notare Mancino. ‘Il segreto di queste uova sta tutto nella qualità dell’alimentazione ricca di semi, frutti e vegetali e nella serenità dell’esistenza delle galline che godono di grandi spazi e di ritmi naturali di vita. Ma Gallus è molto di più perché Iannelli alleva anche struzzi, oche e anatre e ‘possiamo utilizzare uova di varie specie per le nostre omelette. La tua di questa mattina è d’uova d’anatra. Classica, perché ruota attorno a uova, pane e Parmigiano’ chiosa Mancino. L’extra ordinario sono la composta di cipolle rosse di Tropea, il caviale, il tocco di tartufo e il Pecorino semi-stagionato. La preparazione è semplice. Sono gli abbinamenti a fare la differenza e a ricreare un piatto di mezzo, tra dolce e salato, la cui bontà esplode in un’armonia di gusto.

Dinamismo e azione – La crêpe Suzette preparata da Lorenzo richiede il bis. Ed è la preparazione al tavolo con la sobria teatralità dei gesti che ne inscenano la realizzazione un’attrazione mai banale. Una preparazione che arricchisce la colazione di contenuti che vanno al di là dell’esperienza multisensoriale e permette agli ospiti di connettersi a livello umano, emotivo e spirituale con l’identità e il carattere elegante ed estroverso del Grand Hotel. Vogliamo superare il concetto di un ospite spettatore passivo della nostra colazione, che subisce l’eleganza e l’opulenza del nostro buffet che può intimorire. Ogni ospite è un attore principale della nostra messa in scena che si trasforma in esperienza di vita in grado di coinvolgere emotivamente, intellettualmente e fisicamente l’ospite. E con Lorenzo si conversa amabilmente mentre si scoprono i gesti di una tradizione, quella della Crepe Suzette nata da un errore di Charpentier, alla corte monegasca di Escoffier, quando del liquore cadde maldestramente incendiandosi nella padella delle crepe sancendo la nascita di una dolce invenzione: graditissima a Edoardo VIII, Principe di Galles e futuro Re, quando gli fu servita malgrado l’errore, e, meno regalmente, graditissima a tutti noi.

 

Assistere alla preparazione di Lorenzo è a tutti gli effetti una master class di qualità grazie alla trasmissione personale di un sapere di cui si fa esperienza. E se l’oratore affascina con la parola e con la presenza con cui domina la scena la partecipazione del tavolo è attiva e si colgono i particolari che qualificano una preparazione frutto di una artigianalità quasi orafa rispetto ad un processo standardizzato.  Si scopre così che l’accorgimento di qualità è mettere la crêpe distesa, così può assorbire bene la salsa. Poi la si piega con un mestiere tutto di polso, un gioco tra cucchiaio e forchetta a gestire la fine ripiegatura della crêpe quando ha opportunamente assorbito la salsa. Lorenzo usa un’arancia sanguigna che resta più amara ma nel contesto ricco di grassi e sapidità della colazione si stempera bene. L’aggiunta del Grand Marnier sviluppa una fiamma viva e consistente che sale con un’enfasi da operetta dalla padella. Lo zucchero aggiunto a fuoco vivo dà il giusto caramello. Due palline di gelato alla crema sono la coccola che Lorenzo ci impone per una versione ‘rinforzata’ della crêpe perché quella del mattino è comunque una versione light rispetto alla preparazione della sera. Nella classica serale ci vuole la vaniglia, le praline di pistacchio e dei frutti rossi. ‘Poi è una questione anche di praticità. La crêpe richiede il suo tempo. E con 180 colazioni ho in media 60 crepe da preparare ogni mattina e i tempi si allungano. Faccio tutto espresso. E la stazione mobile permette di prepararne al massimo quattro per volta’.

Tratto-Macelleria Vivarelli. L’elegante intelligenza di un macellaio

Cagliari è una città vivace. Ha un inverno mite che alle mie latitudini prealpine già si chiamerebbe un anticipo d’estate. Si atterra all’aeroporto di Elmas bevendosi il mare, planando sullo stagno di Santa Gilla con la città dispiegata ad attendere i visitatori. Monte Urpino, Stampace, Casteddu ‘e susu protetto dalle mura spagnole e dal Bastione di Saint Remy, emergono dalle case disordinatamente ordinate come in tutte le città di mare. Qui a Cagliari, come ci ricorda Lawrence, più si sale alla Cattedrale più sono mirabilmente addossate, accatastate le una alle altre, nude, assolate, quasi divorate dalla luce del sole. E non stupisce che Cagliari sia una città luminosa faticosa da visitare e che nella fatica della visita ai suoi nove colli si concentri il gusto di comprendere appieno la costruzione della città. Una città ora torta e ritorta che si ritrae in segno di protezione dal mare, asserragliata dallo Scirocco e dal Maestrale, ora rilassata in ampi viali. Si cammina molto se si vuole entrare in contatto con l’anima più vera della città che solo la velocità del passo può restituire nella più viva ricchezza di particolari: un portone, un murales, uno scorcio da un belvedere che apre sui tetti, una porta monumentale, il rumore della vita che scorre mai uguale. Ho imparato da tempo l’importanza di visitare a piedi le città che non conosco. Si prende così il passo urbano più adatto alla visita, ora corto e regolare e per questo appropriato alla salita ora più leggero e consono alla discesa, lasciandosi alle scale, ai portici, agli stretti vicoli, ai passeggi dei lungomare, all’osservazione di palazzi signorili e chiese, botteghe artigiane e negozi etnici, mercati, ristoranti gourmet e trattorie, bascius rimodernati e case popolari dove la vita è arzigogolata, combattuta, caotica e arrangiata, cresciuta  storta per i colpi di vento e di marea che il destino sa dare. E nel cammino è il respiro che modula l’affanno, gestisce il cuore e il suo battito, regola l’osservazione e dà il passo all’emozione. Solo camminando si metabolizza una città che cambia, i grandi e i piccoli mutamenti che la storia impone all’urbanistica fatti di passaggi graduali o di svolte dialettiche improvvise e stridenti. Solo camminando si può apprezzare la ricchezza sociolinguistica della città che alla varietà campidanese tipica dell’area associa quelle dei sardofoni che si sono trasferiti nel capoluogo per lavoro. E in una città di mare, odorosa per definizione, ci si può perdere ad annusare come fossimo degli aromatieri pronti ad attingere da tante boccette di profumo quante le sue vie incuriositi dal riconoscimento degli odori del porto con i suoi rumori di sirene e antichi cordami, dell’onda aperta del mare al Poetto con il suo leggero frusciare sulla sabbia morbidissima e il vento che agita gli stabilimenti balneari, delle pinete resinose di Monte Urpino, della bellezza carnale e sapida del mercato del pesce di San Benedetto, di un piatto di arselle, di una seadas, di un pecorino così umani nel concerto di un mare che entra fin nel quartiere di Marina con i palazzi monumentali di Via Roma, i portici belli per una colazione e i caruggi intricati e multietnici che salgono in un reticolo di bronchi e bronchioli a portare la sapidità del Tirreno fino ai piedi del rione Castello in un respiro ampio e profondo attraverso un dedalo di vicoli che sbuca in Piazza Costituzione che è centro e cuore, snodo per Stampace, Villanova e Casteddu e susu e la salita a piazzale Umberto I.

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Walter Vivarelli, sardo, ha 59 anni e uno sguardo aperto che non ha paura di incrociare gli occhi della persona con cui parla. Ha un suo fascino, Vivarelli, che del macellaio non ha il phisique du role ma il piglio e la sicurezza e una garbata educazione che riflette nella parola a volte elegante, a volte asciutta, e uno stile dell’eloquio che sorregge l’affabulazione con naturale padronanza. E nel dialogo Vivarelli si concede raccontandosi senza falsità o dietrologismi, pur mantenendo un pudore frutto dell’eleganza di una persona che vive con cura. E la cura con cui ci si educa alla vita e con cui si educano le vite di chi si alleva fin dalla nascita sono un trademark di distinzione. Dettano i tempi e i modi con cui impariamo ad esprimere quello che in fondo siamo.  Mostrandoci per quello che siamo, rivelandoci grazie a quello che facciamo. Niente a che vedere con Vincent, il macellaio interpretato da Fabrice Eboue in Barbaque, movie dell’irriverente cinematografia francese, alle prese con la vendita di prosciutto millantato come iraniano e invece fatto in Francia con carne molto umana per sbancare il lunario con la sua macelleria. Perché la filosofia di Vivarelli è quella della cura e del rispetto degli animali che alleva, dei tempi di crescita, della sacralità dei pascoli di una Sardegna rurale che è madre primigenia, vera, forte, vitale.

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Lo incontro nella sua tratto-macelleria di Via Torino in una giornata di inizio febbraio di ritorno da Villanova che mi ha fagocitato con l’umanità carnale e estroversa dei suoi abitanti. Mi accoglie nello stretto locale costretto da un bancone essenziale per l’esposizione delle carni, dei salumi e dei formaggi e da qualche bottiglia di vino in bella mostra sui ripiani a muro.  Come in tutte le macellerie si può acquistare direttamente per l’asporto ma da Vivarelli si può chiedere che la carne scelta sia preparata nella cucina della trattoria che Walter ha aperto nei vecchi magazzini dello stabile. Oppure ci si affida completamente alla brigata e si lascia fare secondo le proposte del menu. Bisogna per questo oltrepassare la macelleria, l’attraversamento è d’obbligo come fosse un’iniziazione, scendere pochi gradini, entrare nell’emporio ora trasformato in un semplice locale in pietra calcarea a vista, accomodarsi a un tavolo e affidarsi. E se andare dal macellaio è una tradizione di tante famiglie per le quali l’acquisto in una bottega di alimentari è impreziosito dalla speciale relazione col bottegaio che è confidente, confessore, fiduciario di un rapporto di lealtà che sfiora l’amicizia, meno consueto è affidarsi a una macelleria per i servizi di ristorazione benché sia dai macellai di fiducia che nascono le basi della nostra cucina. In fondo Vivarelli fa quello che tutti noi facciamo: andare personalmente dal fornitore più fidato per selezionare con cura le materie prime di migliore qualità per ognuno dei piatti del menu. E chi più di Vivarelli ristoratore può conoscere quanta fiducia meriti il Vivarelli macellaio allevatore quando diventa fornitore di una cucina.

Intervista

Chi è Walter Vivarelli? – Io sono un umile macellaio. Abbiamo una macelleria di famiglia che ha 60 anni di storia. Partì mio padre con un box al mercato di Iglesias negli anni Cinquanta. Dal 1966 si è trasferito nella sede storica di Via Bosco Cappuccio, nel popoloso quartiere di San Michele a Cagliari. Nel 1990 assumo la gestione della macelleria. I miei zii, cosi come alcuni dei miei cugini, sono tutti macellai e hanno negozi sparsi nel Sud della Sardegna.

Di suo padre cosa mi dice? – Mio padre era figlio di un minatore emigrato dalla Val d’Orcia. Lo definirei una persona coraggiosa e tenace. Morì che avevo pochi anni, nel 1973. Mia madre continuò la sua attività. Io sono cresciuto in bottega e mi sono appassionato fin da piccolo al mondo della carne. Poi sono dovuto partire perché quando si è giovani casa sta stretta. Ma sono tornato.

Nella vita si emulano i padri. – Fin da piccolo giocavo al macellaio. Avevo un coltellaccio del tutto spuntato affidatomi da papà e con questo mi dedicavo alla pulizia delle ossa.

Un mondo complesso quello della carne. – Assolutamente. Purtroppo il mondo della carne non viene valorizzato appieno perché l’animale non è apprezzato nella sua totalità. Vorremmo che fosse tutto il solito filetto, le solite bistecche. La bellezza dell’animale è invece da ricercarsi nelle sue tante parti, quelle più note e quelle meno famose. Perché non farlo degustare nella sua interezza?

Per poterlo fare ci sarebbe bisogno di conoscenza e di voglia di approfondimento. Forse siamo in un periodo storico dove c’è molta superficialità e qualunquismo. Si seguono mode. – Considerando che ho una filiera completa dal campo alla stalla, dalla macelleria al tavolo, e ho quindi una profonda esperienza del settore carni come produttore e trasformatore, le posso dire senza presunzione che tutte le parti anatomiche del bovino hanno caratteristiche appropriate per essere impiegate in cucina, ognuna adatta a modo suo alle diverse cotture e ai diversi periodi dell’anno. Anche la guancia, la coda, la lingua e la trippa lo sono. O la punta di scamone, il cappello del prete, la copertina di spalla. Il quarto anteriore ha tagli che possono essere valorizzati ben oltre un brodo o uno spezzatino ma vengono spesso sottovalutati e ignorati. Ma è proprio grazie a questa molteplicità di forme che posso passare dal crudo (tartare, carpaccio, battuta a coltello), alla griglia (arrosto, costate, fiorentine, tagliate), al tegame o alla pentola (stufato, brasato, spezzatino, bollito), allo stracotto (filone del reale, campanella, varie parti del quarto anteriore), ai carré frollati da 30 a 70 giorni. Un passaggio, questo, che dipende dal taglio, dall’animale, dalla sua razza, dall’età, dall’allevamento. Se ben allevata anche una vacca femmina a fine carriera può dare carne che a seguito di una lunga frollatura può esprimere una complessità aromatica unica.

Lei è noto per promuovere carni bovine pregiate di razze autoctone sarde. – Alleviamo e macelliamo con Gianluigi Liscia solo capi di razze autoctone: la Sardo Modicana (bue rosso) e la Sardo Bruna (melina). Diamo voce quindi alle nostre razze.

Quali sono le principali differenze tra le due razze? – La razza Sardo Bruna deriva dall’incrocio di assorbimento e dal successivo meticciamento selettivo fra tori Svitto di razza Bruna Alpina e vacche della popolazione autoctona della Sardegna settentrionale. E’ un bovino a duplice attitudine carne-latte che nasce originariamente nel territorio del Logudoro. Ha mantello grigio sorcino di varia tonalità, più scuro nei maschi e più chiaro nelle femmine. La Sardo Modicana nasce invece nel 1870 nel territorio del Montiferru dall’incrocio della vacca sarda con tori di razza Modicana provenienti dalla Sicilia. E’ una razza forte a triplice attitudine lavoro-latte-carne.

Quali sono le differenze sensoriali delle carni? Glielo chiedo visto che è giudice qualificato dell’Istituto Nazionale Degustatori di Carne. – Ti posso dire che la Sardo Modicana è più magra della Bruno Sarda che ha una fibra muscolare più grossolana e un grasso distribuito all’esterno del muscolo.  La Sardo Modicana è più sapida.

Che tipo di alimentazione seguite? – Prevediamo la somministrazione del latte materno sino allo svezzamento e, in seguito, il pascolo o la stabulazione libera con una eventuale integrazione di foraggi freschi e/o affienati provenienti da prati naturali, erbai e da coltivazioni erbacee tipiche della zona, con una possibile stabulazione fissa e l’utilizzo di mangimi per l’ingrasso e il finissaggio.

Allevandole contribuisce quindi al recupero di queste razze. – Dall’Ottocento fino agli anni ‘60 del Novecento la razza Sardo Modicana ebbe una certa diffusione in tutto il territorio regionale della Sardegna e del Montiferru in particolare. Solo dopo, con la meccanizzazione in agricoltura e l’introduzione di razze cosmopolite specializzate nella produzione di latte, questa specie diminuì notevolmente di numero per sopravvivere nelle aree collinari e montane dell’Alto Oristanese, dove oggi se ne tenta, con grande sforzo, il recupero.

E contribuisce in qualche modo anche alla conservazione del paesaggio. – L’animale al pascolo mitiga la desertificazione, l’erosione del suolo, la perdita di biodiversità. Una vacca sarda, che è di piccole dimensioni e ha un comportamento alimentare simile ai caprini, quando si ciba nella macchia di cespugli porta altrove i semi con le feci. Rilascia e riporta nel sistema biodiversità. Cosi la vacca sarda modella i nostri pascoli.

Il pollame? – Non fa molta strada. Viene da I Mudu a Ussana dove si allevano i polli senza mangimi di origine animale secondo un protocollo certificato antibiotic-free.

E per i maiali? – Alleviamo il suino meticcio sardo che deriva da incroci di diverse razze da carne tipicamente utilizzate negli allevamenti italiani. E’ un maiale che presenta tracce genetiche del cinghiale che danno al fenotipo caratteristiche striature e colorazione delle setole fin dai primi giorni di vita. Spesso non viene valorizzato benché sia un patrimonio culturale storico meraviglioso. Nel mio menu faccio degustare il suino in diverse presentazioni. Anche la filiera del suino è di mia produzione quindi do accesso a tutte le parti dell’animale.

Quali sono le caratteristiche delle sue carni? – La sua crescita è lenta se paragonata a quelle di un comune “maiale commerciale”. Sono carni sapide e compatte stimate per la qualità. Sono più scure e hanno un sapore più intenso. Sono ottime se consumate fresche, alla griglia, in forno o trasformate in salsiccia, soppressata, coppe, lonze, ragù, polpette o polpettoni. Nel 2016 a Iglesias, alle pendici del monte Marganai, è nata la Società Agricola Demetra gestita da due miei nipoti che si occupano dell’allevamento del suinetto da latte. Lo allevano nel pieno rispetto del benessere animale garantendo una vita all’aperto, l’uso della lettiera in paglia per i lattonzoli e un pavimento continuo per i passaggi indoor.

Abbiamo parlato di bovini e di suini ma di ovini e caprini cosa mi dice. – Per gli ovini e i caprini mi appoggio a piccole produzioni locali di amici che allevano la pecora e la capra. Ho questa linea aperta con persone che allevano da tempo.  Posso dire che ho le loro chiavi di casa tanto siamo amici.

In Italia però la pecora non ha la stessa tradizione di consumo di altre carni. La sua clientela come si rapporta alla pecora se non è di origini sarde? – La pecora ha da sempre molti estimatori in Sardegna anche se a Cagliari cambiano un po’ le preferenze e solo negli ultimi si è iniziato a capirne la qualità gastronomica.  Ormai c’è una precisa volontà degli allevatori di dare valore alla carne di pecora visto l’apprezzamento del mercato.  Dobbiamo ringraziare l’operosità di piccoli salumifici che la nobilitano trasformandola in salumi, prosciutto e salsiccia secca soprattutto.

La pecora viene allevata all’aperto. – Devi considerare che al 97-98% il comparto ovino in Sardegna cresce libero. Sono pecore d’erba. La pecora non è una capra che si arrampica e ha una masticazione che le permette di mangiare arbusti in tutta serenità.  La pecora ha bisogno di un alimento morbido.

Sono carni che mantengono una loro intensità e robustezza gustativa proprio grazie all’allevamento all’aperto. – Certamente. Ma sono carni che richiedono di essere lavorate bene. Vanno addomesticate in cucina. Chi ama una carne con un profilo sensoriale meno intenso non consuma carne di pecora.  Ti dico però che il turista è comunque curioso e la cerca.  D’estate ne lavoro tanta proprio quando la pecora ha la pastura secca che esalta l’intensità aromatica della carne.  D’inverno la pastura è invece fresca e quindi il gusto della carne è più delicato. La presentiamo come arrosticini e come spiedini. Facciamo la pecora a succhittu cuocendola in umido con il cannonau. Posso poi disossare la coscia, imbottirla, cuocerla al forno a bassa temperatura e finirla in tegame con brodo e cannonau. La accompagno d’inverno con la cicoria selvatica.  Ma abbiamo anche il ragù di pecora e l’hamburger di pecora. C’è, come vedi, un panorama ampio. La mia forza però chiaramente è il bovino.

In che cosa si diversifica? – Per una serie di fattori che si integrano. C’è una questione genetica, una questione di allevamento e una questione di territorio. Un bovino fa quel che la sua genetica gli permette secondo le modalità imposte dalle forme di allevamento e dalla vocazione del territorio. Non che la razza sarda sia superiore alle altre razze che si possono trovare in Italia. Ma se porti la Sardo Modicana in Lombardia tutto cambia perché si esprime diversamente.  In fondo vige la regola che ogni territorio ha le sue caratteristiche e le sue razze. Se torniamo a piombo è l’allevamento che fa la differenza.  Un regime di allevamento estensivo come noi facciamo, e cioè lasciare l’animale tranquillo senza forzature e che possa prendere il tempo necessario per la crescita, è un vantaggio competitivo.

Come allevate i vostri capi? – Per la maggior parte dell’anno l’allevamento dei bovini si svolge all’aperto, in pascoli naturali, tra i 250 e gli 800 metri di altitudine. Questi terreni, di origine vulcanica e mediamente acidi, producono pascoli che si mantengono freschi fino a estate inoltrata. Dopo lo svezzamento il vitello è tenuto in stalla per un periodo di 5-8 mesi e lo si alimenta con un mix di farine di orzo, di soia e di mais, con crusca, piselli, polpa di barbabietola da zucchero, fieno di loietto e avena, con trifoglio. La dieta è integrata con paglia per garantire una buona ruminazione. Durante il ristallo, il periodo preparatorio alla fase di ingrasso degli animali che provengono generalmente dal pascolo, è di fondamentale importanza disporre di un mangime dall’elevato tenore di fibra che sia altamente digeribile e che dia un’ottima integrazione minerale, vitaminica e un corretto tenore proteico.

Sono da poco stato in Giappone e ho provato Wagyu nella versione forse più elegante quella del manzo di Kobe. Cosa dà di vantaggio la carne giapponese vista da un macellaio? – Io personalmente… [Mi guarda fisso negli occhi con serena tranquillità e non commenta] …

… a me visivamente non piace. – Wagyu e Kobe hanno alle spalle un discorso di business e di comunicazione, un grande marketing. In questo i Giapponesi sono maestri e hanno saputo comunicare molto bene il valore delle loro carni. Qualitativamente non riesco ad apprezzarle. Per me un conto è mangiare carne un conto mangiare grasso.

Io amo il grasso della carne e me lo aspetto nella bistecca se si vuole completare l’esperienza gustativa nella sua essenza ma non nella misura, o meglio, nella struttura che assume nella carne giapponese. Il wagyu è troppo marmorizzato per i miei gusti. – Così è esagerato, per la mia cultura almeno. Ma anche in Giappone vendono wagyu in posti esclusivi e a prezzi importanti. Non credo sia il core business, il pilastro del settore carni nipponico perché i Giapponesi allevano altre razze bovine.

Voi che avete Ichnusa potreste usare la birra sarda per massaggiare i bovini, Heineken permettendo. – [Ride]. Sarebbe una bella operazione di marketing… di legami col territorio e tra produttori.  Potremmo usare il mirto al posto del sakè.

Al di là del discorso della macelleria lei definirebbe il suo locale una trattoria? – Si. Infatti parlo di Tratto-macelleria.

Come è nata l’idea di aprire una trattoria? – Era un progetto che avevo da molti anni perché per me era fondamentale far conoscere l’animale nella sua totalità.

Ma il futuro della ristorazione secondo lei va verso una trattoria di qualità o gli stellati ancora hanno una speranza? – Difficile rispondere. I ristoranti stellati sono concettualmente molto diversi dalla mia trattoria. Bisogna già combattere per distinguere tra trattoria e osteria, concetti che nell’immaginario del consumatore mainstream tendono a sovrapporsi e invece sono molto diversi.  In trattoria si mangia, la qualità conta, si spende perché si dà voce ai piatti e alle eccellenze del territorio. L’osteria è legata alla figura dell’oste, offre piatti semplici e più veloci, meno costosi. Dà ospitalità. I ristoranti invece aprono un panorama diverso.   Con gli stellati raggiungiamo prezzi che per me sono eccessivi, non ingiustificati ma eccessivi.

Con uno chef stellato in fondo, è come se pagassi un prezzo che equivale a quello di un’esperienza che posso fare in un museo come il Louvre o gli Uffizi. Io non valuto nemmeno se il cibo sia buono o cattivo. Certo la palatabilità conta ma in uno stellato a mio avviso meno di altri parametri che qualificano la mia esperienza edonistica. Voglio avvicinarmi all’estetica dell’artista, alla filosofia di pensiero che muove i concetti che arrivano sulla tavola.   Se andassi a vedere un museo di arte moderna farei lo stesso percorso culturale che faccio mangiando da Bottura, Romito e da tutti i nomi altisonanti che conosciamo. Potrei rimanere affascinato da un concetto senza per questo gradirne l’estetica e voler comperare l’opera. Se voglio del cibo però faccio un altro tipo di percorso e passo da una trattoria di qualità. Li pretendo quantità, palatabilità e rassicurazione. –  Ci sono troppi punti di ristorazione che si fregiano di essere delle trattorie quando non lo sono. C’è un pressappochismo nell’offerta che snatura il concetto di trattoria. Ci vorrebbe più serietà, più etica, più rispetto per i consumatori. Lasciamo stare i piatti. Le faccio un esempio col vino. Nella mia bottega i clienti possono comperare la giusta bottiglia di vino. Quello che comperi qui in bottega e porti a casa è quello che bevi a tavola. E il prezzo è lo stesso. Io non faccio mai rincari quando servo una bottiglia al tavolo. Lo considererei un furto.

Il prezzo di vendita ha un’etica. – Certamente. La bellezza di una trattoria è anche quella di poter scegliere una bottiglia di vino di giusta qualità senza essere angosciato dal costo.  Io ho vini esclusivamente sardi di piccole cantine. La qualità è buona, i prezzi contenuti.

Ho visto in macelleria che ha ‘vini di fiume’ e ‘ vini di mare’. – Da noi si dice ‘su binu bonu cun su entu e su mari’. In fondo l’acqua influenza più di quanto pensiamo la qualità di un vino. Avrà visto bottiglie di Bovale della cantina La Giara, di Cannonau della cantina Colline del vento, di Nebbiolo Colli del Limbara della tenuta Muscazegas di Luras, il S’incontru, un Cannonau Nepente di Oliena DOC della cantina Vignaioli di Oliena e tanti altri.

Mi dicevano che ha una quota di bottiglie biologiche. – Si, ce ne sono.

Io non sono così amante del biologico, ancor meno del biodinamico e per nulla dei vini naturali. Il vino è un manufatto dell’uomo e richiede tecnica. La natura non sa farlo. L’uva non diventa naturalmente vino, semmai aceto. – La trattoria, almeno quella che io ho creato, deve essere un posto dove la gente deve sentirsi a casa. Ci vuole semplicità, convivialità. Se devo farmi la scarpetta nel piatto posso farmi la scarpetta senza nessun problema. Se si sta bene bevendo vini biologici lascio in carta vini biologici scegliendo quelle cantine che ritengo facciano prodotti di buona qualità a un giusto prezzo.

Qui da lei ci si sente a casa. Il personale è cordiale. Confesso di essermi divertito molto. – Penso che a tavola ci si debba sentire sereni. Non credo nei posti troppo blasonati e con un servizio ricco di formalismi in cui l’etichetta sopraffà la libertà dell’ospite di esprimersi a tavola. Noi vogliamo dare serenità, calore, far percepire quel senso di domus di cui la ristorazione ha bisogno perché i ritmi frenetici del lavoro e della vita possono portare a dimenticarsi del profondo senso di benessere che la tavola può dare. C’è tanta gente che oggi fa una buona ristorazione senza stelle, stelline e… quant’altro.

Da un lato si rimane sotto scacco del sistema se si vuole arrivare ad avere le stelle. – Questo non va bene. Lo ripeto: si può fare della buona ristorazione senza stelle e stelline. La cosa più bella è dare voce alla mia terra, dare voce alle persone che lavorano nella filiera e rimangono dietro le quinte. La realizzazione finale di un piatto è ovviamente opera del cuoco ma ci sono così tante persone dentro a un piatto che non possono essere dimenticate. Io so cosa vuole dire allevare un capo bovino come so il significato di accudire le mie scrofe. Vivo l’ansia e l’emozione di farle figliare, seguire i maialetti nella crescita. C’è tanto lavoro. C’è tanta vita dentro. Una ricchezza infinita. La vita delle persone che ritrovo in un prodotto è il vero valore di un cibo. Dar voce alla fatica di tante persone che sono a monte di un piatto è prezioso. Così facendo si riconosce il valore aggiunto di un territorio. Si dà voce alla gente che lavora.

E’ come andare a vedere l’opera alla Scala. Sarò romantico. Ci sono gli attori sul palco ma ci sono i costumisti, gli elettricisti, i tecnici delle luci dietro le quinte che rendono possibile lo spettacolo. Non finiscono sulla scena in prima persona ma attraverso un autore, un regista, un direttore d’orchestra, un soprano. Passano di lì e ricevono il loro applauso grazie ad altri cui si affidano e affidano il prodotto del loro lavoro. Lei ha il merito di portare tutta la filiera lunga delle carni sulla scena. Lei porta sulla tavola questo affidamento. Ed è etico far sapere che ritrovo nel piatto tutte queste voci, tutte queste mani, il loro sudore, le loro passioni. – A volte bisogna riflettere quando un avventore dice ‘’complimenti al cuoco’’. No, non è del tutto corretto. Non che il cuoco non faccia la differenza sia chiaro. Ma bisognerebbe ricordarsi di dire anche ‘’complimenti all’animale’’.  Se non c’è la giusta materia prima il cuoco non va da nessuna parte. Partiamo allora ringraziando l’animale che è sacro includendo in questo ringraziamento l’intera filiera che lo ha reso di qualità.

Portare in tavola un pezzo di formaggio può sembrare un gesto banale… – Che si rivela però di grande valore sociale perché so che dentro quel formaggio c’è il lavoro, il sudore, la fatica di chi lo ha reso possibile. Non immagina quanto sia prezioso e importante per me dare voce al mio collaboratore che semina e raccoglie e fa i foraggi delle leguminose per gli animali da latte che è un lavoraccio d’estate sotto il sole. Si deve alzare alle quattro del mattino. Molti non lo capiscono perché non sono abituati ad andare oltre l’apparenza di un gesto per vedere cosa quel gesto rappresenti. Se metto un paio di euro su quel formaggio non sto rubando. Sto dando voce a queste persone invisibili riconoscendo il giusto valore del lavoro che passa anche attraverso il riconoscimento del giusto prezzo di un prodotto.

Vede, se torniamo all’alta cucina, al fine dining, temo che per un ragazzo sia molto più semplice seguire le regole di per sé non scritte che conducono dritte dritte alla stella: qualità degli ingredienti, armonia dei sapori, padronanza delle tecniche, personalità dello chef espressa nella cucina, coerenza nel tempo dell’intero menu. In fin dei conti è più facile stupire con tecnicismi, la fusione che integra elementi culturali lontani, l’arte della presentazione, l’affabulazione e si avrà la chance di rendersi visibile agli occhi di un giudice della guida Michelin. Chissà perché ma la ricerca che porta a fondere elementi multiculturali in un piatto affascina spesso un giudice più di quanto un lavoro in sottrazione che vada all’essenza di una ricetta che rappresenta il territorio. Viva l’alga nella pappa al pomodoro, nel risotto alla pescatora o nell’ impasto dei cappelletti. – [Sorride]

Benché il fine dining più serio in Italia sia influenzato dalla cucina tradizionale del territorio, la cucina stellata sogna quasi sempre un grande banchetto universale svincolato dai limiti geografici, prendendo il meglio di ogni luogo in nome di un sincretismo gastronomico. Asseconda cioè l’idea di una cucina di fusione che in nome dell’integrazione gastronomica abbatte le barriere culturali che fanno del cibo un elemento di distinzione sociale. Omogenizzando in prodotti innovativi ingredienti culturalmente eccentrici provenienti da più parti del mondo, reinventandone l’uso rispetto al contesto culturale di appartenenza, sembra infatti essere propedeutico a una cucina gourmet sofisticata ed estrosa, a volte estrema e a tratti non immediatamente comprensibile che avvia alla stella. Costa probabilmente molta più fatica impegnarsi con il territorio e allinearsi con esso nel rispetto di presìdi, produttori e materie prime in nome di una purezza ancestrale che richiede una passione da miniaturista per luoghi sempre più piccoli come ricorda Montanari nell’opera ‘Il cibo come cultura’. –Occorre capire il territorio e investire su di esso senza cadere in facili stereotipi e banali standardizzazioni che rendano la cucina del territorio avulsa dal contesto e dai tempi in cui viviamo.

E ci vuole la voglia di farlo perché costa fatica nascere in un territorio e rispettarne l’appartenenza.  Mi si passi la battuta: ‘un territorio è basso quanto la terra è bassa’. Fa sudare e provoca i calli sulle mani. Un territorio sa essere madre generosa che dona ma anche madre gelosa che toglie e pretende. Bisogna essere un seme che germoglia grazie all’humus e al calore del terreno, ancorarsi ad esso e nutrirsene perché l’uomo, la sua humanitas, origina dalla terra e la sua umanità si sviluppa in relazione al contesto ambientale in cui vive. E’ una questione di radici perché senza radici non si ha memoria e la cucina diventa un esercizio di stile, magari perfetto, ma sterile. Bisogna poter attingere nella memoria e poter ritornare a trovare nella memoria. ‘Una cucina che produce sapori artificiali, che non conosci, non ricordi, a cui non ti affezioni è destinata all’estinzione’ diceva Arrigo Cipriani dell’Harry’s Bar. La trattoria nasce da qui. Dalle radici. Credo poco ai trapianti o agli innesti che vivono artificialmente cresciuti su un supporto alieno. Gli elementi multiculturali in una ricetta, seppur ingegnerizzati con precisione, mi sembrano spesso portare a delle chimere. – Con tutte le difficoltà che gli stellati devono affrontare… Mi posso togliere lo sfizio una volta ma non è che poi possa andare tutti i giorni da uno stellato.

Poi chiedono la fidelizzazione del cliente. A un menu degustazione a tre cifre posso avvicinarmi semel in anno se mi va bene. – Con quella spesa in trattoria ci passi le volte che vuoi.

Quando si viene a mangiare e c’è una verità nei piatti è come andare in chiesa. Faccio un atto di fede ma per farlo devo vedere che c’è una verità che mi viene comunicata. – Questo è fondamentale. Alla base. Devo dirle la sincera verità. Ho tantissimi clienti che non vogliono nemmeno vedere il menu.  Non gliene frega niente.

‘ Dimmi tu…’ è il loro incipit. – Bravo. E questo è il più grande riconoscimento. ‘’oggi cosa mi fai mangiare’’. Mi nutro di te attraverso la fiducia che ho di te.

C’è un affidamento. In fondo diventiamo quello che mangiamo e affidarsi completamente è un gesto di fiducia e riconoscimento perché accettiamo di essere cambiati attraverso questo affidamento. – Ci sono clienti che da noi vengono due o tre volte la settimana e sono ormai di casa grazie a questa frequentazione assidua. Sanno della mia abitudine di disporre di un animale intero e di far assaggiare oggi un taglio ritenuto nobile e domani una parte creduta erroneamente meno nobile. Ma si affidano a questa mia proposta.

Io ho una domanda irriverente che di solito pongo agli intervistati e cioè quanto ci si sente nudi quando si cucina. Nel suo caso, visto che cucina meno dei suoi cuochi, quanto si sente nudo nella sua proposta da macellaio, quanto ci si espone e si mette nudo nella sua verità con le persone che vengono a mangiare da lei. La macelleria in fondo è una questione di carne. Un macellaio non può prescindere dalla sua nuda carne. – Io non mi nascondo dietro un dito che poi… un dito non so bene cosa possa coprire. Io son così. A volte chi mi conosce meno mi dice ‘Sei un bravo cuoco’. No, non è così. Posso anche cucinare certo. Ma non sono un bravo cuoco e nemmeno un cameriere anche se posso portare in tavola con piacere dei piatti. Sono un macellaio e rimango un macellaio. Amo il mio lavoro.

Sfonda una porta aperta con me. Fatichiamo così tanto ad essere noi stessi e poi realizzo che è già tanto se chi ci osserva ne capisce una, e dico, una sola, delle dimensioni che ci rendono quello che siamo.  Detto questo, ma quanto un consumatore medio ha la capacità di capire la qualità di un servizio e di un’offerta gastronomica? – Anche zero. Manca un’educazione, la capacita di comprendere. Vede, la tavola è storia. Da che mondo è mondo la tavola è cultura. Se guardo alla mia terra e parto dai nuraghe la tavola, la convivialità aveva un grande valore.  La condivisione di un porchetto faceva nascere un dialogo, un confronto. Oggi viene a mancare questo significato.

Purtroppo rimane l’atto che viene svuotato del significato. Ci sono forme e rappresentazioni che hanno perso la funzione di veicolare un messaggio. Quindi sono insignificanti.  Non sappiamo più andare oltre l’apparenza.  Una sua ricetta? – Se devi preparare il Su Ghisadu di bue rosso hai bisogno del Cannonau. In fondo è carne cotta in umido grazie al vino. Poi condisci la pasta o lo metti su una buona fetta di pane. Io lo faccio con il bue rosso anche se tradizionalmente si usava agnello adulto o pecora. Il manzo era storicamente per le famiglie più abbienti o per i giorni di festa. Uso tagli meno nobili del quarto anteriore. Vanno benissimo la copertina del reale o della spalla. Le devi fare a grossi pezzi in un soffritto di olio extra vergine, aglio, sedano, carota e cipolla. Quando la carne inizia a scaldarsi bisogna aggiungere alloro, ginepro e timo. Si versa poi del brodo vegetale e si copre con il vino. Una volta ridotto il vino si aggiunge della polpa di pomodoro. Si regola di sale e si fa cuocere per almeno tre ore.

Sa Cordula con i piselli? – E tu come la conosci? Se ami l’intestino di agnello lo devi far lessare per mezz’ora. Poi lo rosoli con olio extra vergine, vino bianco e cipolla. Aggiungi i piselli.  Lasci cuocere a fuoco lento. E se vuoi esagerare, esagera con della buccia di limone.

 Ajoo tottus a mesa

Nel menu della trattoria troviamo l’inedito suitonno e molti altri piatti tradizionali: natalis con purpuzza, parasangue, bombas di bue rosso, trippa alla sarda, trattalia, agnello in verde, agnello in crema di uovo e limone, Cinghiale di Tertenia al Cannonau. ‘Richiedono tempo per la preparazione a causa delle lunghe cotture’ mi confessa Vivarelli. Molti piatti scompaiono purtroppo per mancanza di tempo e ad essi Vivarelli cerca di donare nuova vita. Difficile scegliere dalla carta del menu cosa provare, ancor più dai piatti del giorno, ed io, amante dell’agnello e del capretto in tutte le loro forme, non voglio rinunciare a un classico agnello con carciofi lasciandomi poi, come concessione, l’assaggio dell’agnello in crema di uovo e limone. Le erbe amare di campo sono una passeggiata tra le campagne e raccolgono l’essenza del territorio cui non posso rinunciare. Mentre finisco l’agnello una voce alle mie spalle mi raggiunge. ‘Glielo posso appoggiare? ’ Mi volto incuriosito dalla proposta ed è il cameriere che ha raccolto il mio tovagliolo. Da un uomo non ho mai ricevuto troppe avances forse perché tutti sanno che vivo nel mito di una certa Charlize Theron e del suo corto vestito che si smaglia mentre la giovane si allontana da un Martini. Ma le seadas sono calde dolci e avvolgenti di piacere. Le più buone abbia mangiato e il cameriere si merita un ‘si, ma solo se lo appoggia piano’ perché l’incanto della tavola è leggero come una bolla di sapone e non merita di essere strapazzato da troppa irruenza nemmeno quando si tratta di un gesto d’amore.  Specialmente quando l’amore non era richiesto e arrivava del tutto inatteso alle mie spalle.

Una nota finale

Mio bisnonno Ignazio contribuì alla costruzione de La Rinascente di Via Roma sulle ceneri del cinema Iris a Cagliari. Era la fine degli anni Venti. Lui ha visto la Cagliari dei caffè eleganti, dei tram elettrici, di via Roma con il passeggio all’ombra dei pioppi, dei balconi fioriti da cui le donne facevano le civette perché, in fondo, come disse Grazia Deledda, Cagliari è la città dell’amore. Ha avuto negli occhi i piccioccus de crobi fuori dalla stazione, dal Partenone di largo Carlo Felice, lungo le banchine dei moli pronti a portare merci con le loro ceste; le panetteras di Villanova ciurlate dal Carnevale Casteddanu per essere pettegole e gli arigatteris che contrattavano il pesce al porto perché Cagliari è una città in cui la vita è stata ironica a tal punto da avere infornacristi a Villanova, ‘sederi a mollo’ alla Marina, ‘piscia  tinteris’  al Castello e  ‘cuccurus cottus’ stampacini dalle teste calde,  permalose e un po’ perfide. I cagliaritani si sa amano da sempre i soprannomi e sono certo che abbiano ribattezzato ‘strangiu’ il bisnonno. Ma sono altrettanto certo che il bisnonno abbia apprezzato la città e la sua gente: allegre, ospitali, ironiche, con un profondo gusto del paradosso nelle loro chiusure e resistenze ma anche nella capacità di adattarsi e di confrontarsi con lo straniero. Non so però se abbia mai sperimentato quanto ‘mandroni’, ‘murrungioni’ e modaioli possono essere i Cagliaritani. In fondo questi sono vizi virtuosi del cagliaritano moderno. Apprese però il vezzo di mettere sempre il verbo alla fine della frase come nella sintassi latina e, tornato nelle quiete Prealpi, disse a sua moglie Michelina in un impeto di nostalgica gioia ‘bella sei! ’ anzi ‘ bella solo sei’ cercando di rincarare la dose malgrado la moglie percepisse che quel ‘solo’ la stesse sminuendo invece di esaltarla in una forma tutta sarda assolutamente superlativa.  Benché a Cagliari si trovasse molto bene il bisnonno non commise l’errore di definirsi sardo d’adozione perché sapeva che per i Cagliaritani rimaneva in qualche modo uno straniero e gli isolani avrebbero storto il naso.   Seppur lo straniero a Cagliari diventi o eroe o un Dio. Gigi Riva da Leggiuno e Sardus, Dio eponimo di origine nordafricana, ben ci insegnano.

La cucina monoproteica di Onofrio Pagnotto – di Gianluca Donadini

Onofrio Pagnotto, 25 anni da Vietri in Provincia di Potenza. Due stelle Michelin, la rossa per la cucina e la verde per la sostenibilità. Siamo a Vulcano, nel Therasia Resort Sea & Spa 5 stelle lusso ospiti de Il Cappero, il ristorante che Onofrio guida da aprile 2024. Un cambio stilistico importante per un ristorante stellato devoto alla cucina della tradizione siciliana da cui brigata e executive chef traevano ispirazione per lunghi viaggi gastronomici attorno al mondo. Ora la cucina è monoproteica. Si dà luce a carne o pesce in purezza concedendo spazio al pane che in Sicilia è un simbolo ricco di significati ancestrali irrinunciabili. Gli ingredienti vegetali sono autoprodotti, le proteine provengono dalla pesca a mano o da allevamenti non intensivi. Non si spreca nulla nel rispetto della sostenibilità ambientale e sociale. Tra i piatti signature di Onofrio la “Spigola alla Brace” e “Gallina e uovo” – un bottone di pasta realizzato con il solo tuorlo e arricchito da un ripieno di genovese di gallina vecchia. Territorio, gusto e purezza sono senza dubbio le parole chiave della cucina di Pagnotto, un ragazzo cresciuto in fretta come accade a molti Lucani abituati a lasciare la Basilicata e mettere radici dove serve per vivere bene una vita secondo regole e principi che portano all’essenza grazie a un forte senso di adattamento. Scopriamo Onofrio, un Lucano educato e pacato, uomo di antica cortesia, che, senza nulla togliere alla propria terra madre, sente e vive la Sicilia come una seconda casa.

Umberto Trani, direttore del Therasia Resort Sea & Spa, lo definisce la parte razionale di Davide Guidara. Onofrio lo è. Calmo, posato, un viso gentile reso timido dall’occhialino a montatura leggera. Lo vedo mentre passeggia nella sua giacca bianca tra gli arbusti odorosi che disegnano gli spazi verdi del Therasia e collegano il sentiero botanico che porta nella tenuta del Resort. Giovanissimo lavora al Forte Village di Pula, in Sardegna. Gli stage al Noma di Copenaghen e all’Azurmendi di Bilbao tracciano rette di gusto nell’estetica del cuoco lucano. Perché Onofrio è persona educata ma inflessibile, in cucina come nella vita, è l’educazione conta. Eneko Atxa, suo maestro all’Azurmendi di Bilbao è basco e come tutti i Baschi è forte fuori e tenero dentro. E in fondo anche Pagnotto è forte fuori e tenero dentro. Probabile che questo guscio di protezione sia stato il territorio stesso con il suo  atavico isolamento a tesserlo come un bozzolo. Quello che siamo dipende dall’adattamento all’ambiente che ci plasma con una vis interiore che caratterizza e Potenza, “la città verticale dalle cento scale” nell’alta valle del Bisento, è stata città di montagna difficile da raggiungere. Così Pagnotto sembra irraggiungibile, e, una volta raggiunto,  impenetrabile, malgrado la giovane età, perché si isola grazie all’aplomb che ne nasconde il cuore benché questo batta sincero e sprigioni calore.

Dal 2018 vive e convive con Davide Guidara: prima al Sum di Catania; poi dal 2021 a I Tenerumi del Therasia a Vulcanello. Guidara è uomo che travolge; Pagnotto uomo che contiene e argina. Al fuoco che si accende e riscalda e crepita bruciando idee si contrappone la ragione che medita e risolve e che dà forma alla geniale intuizione che corre libera in Guidara. Ora le strade si separano, seppur virtualmente, perché rimaniamo al Therasia e Guidara mantiene la direzione artistica de Il Cappero. Pagnotto è però cresciuto. Merita una brigata. La sua cucina è degna di una riflessione nella sala bellissima de Il Cappero. Serietà e rigore sono binari che danno sicurezza nella gestione di una brigata importante come quella che Onofrio si trova ora a dirigere.  Col tempo Imparerà ad amare e a lasciare che l’amore, ora tutto interiore, si materializzi con un rossore d’emozione sul viso e un fremito della mano, senza più paura di parlare con un linguaggio del corpo ora mediato da un severo rigore.  L’intuizione di lanciarlo alla guida de Il Cappero è stata ripagata con la stella Michelin che il ristorante conserva al teatro Pavarotti di Modena lo scorso autunno. E non poteva essere diversamente per il valore di una cucina precisa, geometrica, ma non per questo troppo cerebrale.

Incontro Pagnotto un pomeriggio assolato di un’estate che inizia a farsi decisa. Il riverbero del sole sul mare tranquillo non disturba il volo dei gabbiani che godono delle termiche per risalire senza fatica le scogliere di una costa alta che dà un orizzonte ampio sulle isole sorelle di un arcipelago, quello delle Eolie, che non sentono il bisogno di abbracciarsi pur non rinnegando il legame di parentela che le accomuna.

Il menu – Scelgo il menu di sette portate. Posso poi decidere quale tipologia di acqua mi accompagnerà negli assaggi e sfiderà il vino tra  San Pellegrino, Panna, Lurisia e Cedea. Elimino Panna perché amo l’acqua con le bolle e scelgo Cedea perché in fondo le Dolomiti da cui sgorga si ricordano ancora di essere state un vasto mare.  E la bottiglia è stilish con i riflessi rosati e blu nella versione naturale o frizzante a ricordare  che Cedea, leggera e  dolcemente alcalina, brilla come l’enrosadira, riflettendo intensamente la sua esclusiva bottiglia vibrazioni rossastre delle rocce delle Dolomiti e riflessi turchesi dei cieli che le sovrastano. Non trovo un azzardo o un tentativo di essere fusion questa unione di mare e montagna grazie a un’acqua che sgorga fredda e pura dalla roccia nuda con la propria energia.

Il benvenuto di Pagnotto si abbina bene con una bollicina. Così mi suggerisce Giuseppe, il sommelier.  Scelgo poi un paio di abbinamenti per i piatti più iconici perché una degustazione che abbini un calice ad ogni portata è impegnativa di suo e l’alleggerisco centrando la carta dei vini sui piatti più significativi della serata. Coniglio e pecora non richiedono un rosso molto strutturato e condividiamo la scelta di un calice di Cerasuolo di Vittoria. Lascio libertà per il bianco, sia  per tipologia di vino sia per il piatto cui abbinarlo, anche se conveniamo di non voler tradire la Sicilia e l’enologia etnea.

Il tavolo guarda il mare. Lipari è difronte a noi. Siamo sospesi nel braccio di mare che divide le due isole perché  Il Cappero si apre come un nido accogliente  protetto nella costa alta di Vulcano. L’ampia vetrata chiude materialmente la sala ma non limita l’affaccio spettacolare sul mare interno delle Eolie. Si gode del tramonto e si assiste al passaggio del di alla notte con le mutate priorità di un’isola che ancora esprime con vitalità ancestrale l’alternanza di modalità che regola i ritmi circadiani della terra.  La cucina di Pagnotto è a vista ed esprime una regia mai invasiva che lavora alle spalle dei tavoli da cui lo chef dirige modi e tempi della brigata. Laboriosa eppur silenziosa, la cucina controlla la rete di flussi del personale di sala e orchestra il concerto di tavoli dando agli ospiti i tempi della messa in scena senza che l’avventore percepisca di far parte dell’apparato scenico allestito da Il Cappero  quando si consegna al personale di sala.  Una volta scesa la sera, e la sera precipita velocemente appresso al giorno a queste latitudini,  punta Crapazza e Monte Guida, che di Lipari sono gli avamposti visibili dal Therasia con i pochi vigneti e le rare case, cedono al fascino della notte che alle Eolie sa essere primitiva come la lucentezza delle stelle merita. E il gioco di riflessi che si crea spontaneamente  proietta la cucina di Pagnotto attraverso le vetrate sospendendola nel Tirreno Meridionale in un gioco di illusioni che portano lo chef e la brigata a confondersi con un mare che assume profonde tonalità di blu capaci di occupare gli spazi tra le due coste invase dalla notte.  Cosi osservo comodamente ogni atto della brigata pur dando le spalle alla cucina. Questa è la chef table perfetta. Nessun architetto ha studiato questa trasparenza che riflette. Eppure la bellezza, quella vera, naturalmente accade.

Il benvenuto di quattro assaggi in ordine libero include ricciola maturata 7 giorni, servita con foglia di cappero, scalogno alla soia e agretto di datterino; polpo cotto in pressione nella sua stessa acqua con una salsa al finocchietto selvatico, limone salato e glassa al malvasia; un pan brioche da mangiare rigorosamente con le mani, ripieno di stracotto di coniglio, maionese al cipollotti bruciato e code di cipollotti in aceto che riprende il tradizionale spuntino che i pescatori portavano un tempo a mare. Finiamo con una cozza marinata in scapece alla paprika, crema di cozza e mollica tostata.

Il bianco, un DOC Etna Bianco, è della cantina vitivinicola Al-Cantara di Randazzo in Provincia di Catania, un’impresa che coniuga vino, arte e poesia in una visione dialettica dell’operoso mondo del vino. “Qui ogni bottiglia è un racconto, ogni etichetta un’opera d’arte, e ogni sorso un’esperienza che affonda le radici nell’anima dell’Etna”.  I climi miti cui sono soggetti i vitigni in altura favoriscono una maturazione equilibrata dei tannini nei vini rossi e permettono agli aromi dei vini bianchi di svilupparsi in modo armonioso. Si creano così vini di personalità, mineralità spiccata, freschezza ed eleganza. Il vino in assaggio è così fresco, con delicate note di fiori bianchi e frutta e una piacevole struttura minerale grazie al terroir vulcanico dove sono cresciute le uve.

Con l’olio siamo a Buccheri, in Provincia di Siracusa, sui monti Iblei. Terraliva IGP biologico è prodotto con olive raccolte a mano da esemplari secolari di cultivar cresciute in altura su terreni vulcanici. La spremitura a freddo e il microclima che gode di notti fresche e pomeriggi assolati come solo la Sicilia sa dare sono radici di qualità per un olio che ha ricevuto 5 gocce da bibenda, 3 foglie dal Gambero Rosso, il titolo di Grande Olio e Presidio da Slow Food grazie a una filosofia di produzione che unisce cultura, culto per la natura, attenzione per la cucina, passione e tanta dedizione.

In Gambero e avocado il gambero di nassa eoliano è servito con finger lime, una salsa ottenuta dalle lavorazioni delle sue teste, cuore di guacamole e acqua fermentata di mela verde, sedano e zenzero.

Alici e Garum stupisce per la croccantezza della lattuga di mare e dei pinoli tostati e l’intensa brezza marina ricca di note iodate e umami delle alici di Catania marinate con olio e lime e servite con maionese al garum.

La seppia è servita  in una profumatissima marinatura, una vinagrette agrumata di yuzu strutturata dalle piacevoli note piccanti di kosho, peperoncino giapponese. Un piatto fresco in cui si avverte il contrasto tra acidità e dolcezza, freschezza e calore, come una brezza marina della sera, quella dell’imbrunire, quando rinfresca e lascia la voglia di un maglioncino di lana sulle spalle.

Con il bottone di gallina si passa alla pasta all’uovo ripiena di genovese di gallina vecchia servita su una base di burro fermentato per due mesi. Del tuorlo d’uovo coagulato, affumicato e grattugiato, ricopre il bottone. Un piatto che strizza l’occhio e che piace perché è bello da vedere, armonioso nella decorazione della pasta ripiena, capace di gusti che ognuno di noi ritrova nelle tradizioni familiari di una cucina domestica, che, seppur meno studiata, ha percorso simili linee di gusto.

Con il rosso siamo nella parte Sudest della Sicilia. Il Cerasuolo di Vittoria è  l’ unico vino siciliano a godere della Denominazione di Origine Controllata e Garantita. Si caratterizza per l’Intensità del Nero d’Avola e la leggerezza del Frappato. È un’annata 2019 caratterizzata da sentori di fiori rossi e prugna. Sposa bene la pecora in umido preparata con latte ovino coagulato, cetriolino e erba cipollina. “Il menu è monoproteico. Nella tradizione siciliana cerchiamo però  di abbinare un carboidrato ad ogni piatto”. Mi spiega Michela mentre ridà  ordine alla tavola disponendo i pochi arredi con geometrica razionalità. Ecco allora un pane alle patate in accompagnamento che richiama il bazlama turco, condito con salmoriglio, condimento siciliano a base di aglio, olio, sale e limone. La pecora è sapida e aromatica. Una ventata di note odorose che sale come una brezza che stropiccia i cuscini selvatici di timo in fioritura di cui le isole sono ricche avvolgendo e naso e bocca.

Il coniglio porchettato è grasso e succulento come una vera porchetta di maiale. Ha note balsamiche intense grazie all’alloro in polvere. Servito con un’insalata di cipolle in agro con uvetta e riduzione di vino rosso ossidato che stempera la succulenza del grasso, acquista una fine eleganza. Il pane è ai tre semi: lino, girasole e sesamo.

L’Ombrina è lasciata maturare per sette giorni, cotta alla brace e servita con beurre blanc. Si accompagna con emulsione di ventresca sempre dell’ombrina.

Il pre-dessert celebra il limone. Si parte da una melaka che è una crema soffice di limone, una marmellata di limone, un limone a vivo, una meringa,  lo spumone e le zeste proposte in una costruzione che vuole celebrare il vulcano che dell’Isola è l’anima.

Il dessert principale si crea con l’aiuto del pastry chef Gianluca Colucci che guida nella scelta degli ingredienti preferiti che comporranno il dolce fatto su misura in un gioco che porta l’ospite a lasciare il tavolo, salire pochi gradini per dare un saluto alla brigata e scegliere tra tante combinazioni di ingredienti possibili esposte al tavolo dei desideri che anticipa un elegante laboratorio open space.

Scelgo un dessert che nella realizzazione finale di Gianluca sia fresco, fruttato e croccante, tre linee del gusto che in pasticceria mi soddisfano sempre, e Colucci improvvisa sui miei ideali sensoriali il testo che matrici di qualità diversissime porteranno in scena come in una piece teatrale pirandelliana in cui cioccolato, mango e fragole sono in cerca d’autore. Il tema è  ancora il limone e Colucci si ingegna di servirlo con crema al cioccolato bianco, confettura di fragole, cialdina al cioccolato bianco e gelato al mango.  Improvvisando secondo un’arte dell’istante, che con Colucci non equivale mai a casualità o approssimazione.

 

 

 

 

INTERVISTA

E’ necessario essere controllati nella vita, e quindi in cucina, oppure no? – Esistono protocolli comportamentali per ogni situazione  e ci sono norme di galateo che è importante seguire sempre nella vita se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi. Il successo nella vita segue un’etica personale. Dobbiamo stabilire dei vincoli, mettere dei confini da non superare, fissare delle regole per avere una crescita educata.

Perché porci dei limiti? Non pensi possano toglierci delle possibilità? – Porci dei limiti no. Limitare gli eccessi che portano fuori strada, che distraggono, che fanno perdere tempo, che portano a uno spreco. Per restare sulla strada che abbiamo deciso di percorrere.

Quindi partiamo dal presupposto che già sappiamo quale sarà la nostra strada? – Sì. O almeno per me è così. Dobbiamo avere  degli obiettivi ben chiari nella vita.

Dobbiamo o dovremmo? – Dobbiamo.

Si nasce volendo fare lo chef? – Non volevo fare lo chef. All’età di tredici anni mio fratello mi chiamò una notte di ritorno dal lavoro mentre dormivo, lui faceva il cameriere nel locale di mio zio, e mi disse “Onò, domani dobbiamo pulire del pesce perché abbiamo un sacco di asporti”. Io che non sapevo pulire né alici né cozze mi sveglio la vigilia di Natale e vado di malavoglia al ristorante a lavorare. E ti dico la verità a tredici anni, il pesce, proprio non lo vuoi toccare. Da lì però ho iniziato ad appassionarmi. Era l’età giusta perché dovevo decidere cosa volevo fare nella vita. Scelsi l’alberghiero. E ti confesso che non è stata la migliore delle decisioni.  Avrei voluto istruirmi in un istituto un po’ più…

Questo me lo dicono tutti… – Perché l’alberghiero ti fa uscire con un background molto ignorante. Sono pochi gli alberghieri che ti formano veramente nelle lingue, nella cultura, nel diritto, nella filosofia, nelle arti, nella gestione del food cost.  Ed è un peccato perché la cucina non è un momento di nutrimento e piacere fine a se stesso, ma porta con sé un’infinità di significati culturali, sociali e simbolici che dobbiamo imparare a conoscere e a trasmettere.

Insegnano almeno le tecniche necessarie in cucina? – Non sempre. A volta i professori hanno una formazione antica, quasi impolverata. Possono forse insegnare le basi ma una volta uscito dall’alberghiero c’è un confronto molto duro con il mondo della ristorazione e ci si rende conto che non si sa fare niente di quello che serve in sala o in cucina. Diventerebbe fondamentale poter frequentare scuole come Alma a Parma, ma i costi sono spesso proibitivi e non è una scelta alla portata di tutti. Però apre al mondo del lavoro.

Diventa quindi fondamentale imparare nei ristoranti – Uscito dall’alberghiero ho dovuto per forza buttarmi nei ristoranti per toccare con mano cosa significasse lavorare in una brigata e ho ripreso a studiare perché dovevo recuperare. In fondo per fare buona cucina serve conoscere l’arte, la filosofia, la cultura in senso più ampio. La scuola non te lo dice. Lo scopri lavorando.

Forse una cosa però non si impara: la fantasia. – Basta aprirsi. Bisogna essere aperti mentalmente. Se sei aperto mentalmente hai voglia di scoprire, hai voglia di cercare. E la ricerca ti porta ad innovare. Io a sedici anni non immaginavo che sarei arrivato al Therasia a fare cucina monoproteica. Penso di esserci arrivato per la mia continua voglia di scoprire e rimettermi in gioco.

Cucina monoproteica, se lo scrivo così sul magazine… – Passo per scemo! Non potevo trovare un nome più carino, sorry, perché il nome monoproteico rappresenta bene l’essenza di quello che facciamo. Monoproteico significa monoproteina, una singola proteina nel piatto senza distrarre il palato con altri ingredienti ma concentrando l’attenzione sulle sfumature di uno specifico elemento, che sia di terra o di mare. E’ un periodo in cui…

“Ma io ho bisogno della monoproteina?” si chiede il lettore? – E’ un tempo questo in cui tutti gli chef, a parte chi nasce senza peccato originale come Guidara a I Tenerumi, puntano sul vegetale con l’idea che sia sostenibile.

Io ho una idea molto precisa sulla sostenibilità del vegetale…e cioè che il vegetale è sostenibile solo e se l’intera filiera rispetta regole di produzione precise. Altrimenti non lo è, né più né meno di qualsiasi altra matrice. – Purtroppo sta passando il messaggio che la proteina animale non sia sostenibile perché proviene da allevamenti intensivi.

Un discorso poco saggio in senso assoluto. Perché criminalizzare chi mangia carne o imporre la carne sintetica che ha comunque un’impronta carbonica. – Il mio lavoro consiste proprio nel dimostrare che si può fare alta cucina con la proteina animale nel rispetto della sostenibilità. Bisogna sapere scegliere bene la proteina. Il mio gambero viene da Alicudi e Filicudi, non dall’Argentina.

E’ una questione di scelte. Può essere più o meno facile ma è una questiona puramente ideologica far passare il vegetale come la soluzione di tutti i problemi. – Certamente. Il problema è che il mondo delle proteine animali è sempre stato sottovalutato forse perché troppo di massa. Qualsiasi ristorante fa proteina, fa carne o pesce. Sono pochi i ristoranti che si identificano con una cucina vegetale e sono ancora meno quelli che lealmente fanno uno studio approfondito sull’elemento proteico.

Oltre a te chi c’è? – Niko Romito.  Però anche lui ultimamente ha svoltato sul vegetale.

Perché è una sfida cucinare il vegetale? – Perché fa moda. Non è il caso nostro de I Tenerumi. Né penso sia il caso di Romito che passa al vegetale per una sfida, una forma di disobbedienza a un sistema. Conta l’approccio iniziale. Molti cucinavano carne e pesce poi nel corso degli anni, cambiando le mode, hanno inseguito il vegetale. Io continuo con il mondo proteico. Anzi, se ci pensiamo bene, ho lasciato il mondo vegetale, non sono più lo sous chef di Guidara che mi ha permesso di avere una visione e un background molto ampio sul comparto delle verdure, e sto puntando su matrici proteiche animali.

Il tuo passaggio a Rimini da Jacopo Ticchi? – Ho trascorso alcuni mesi nelle cucine di Jacopo Ticchi alla Trattoria Da Lucio a Rimini per affinare le tecniche di lavorazione del pescato e in particolare  la stagionatura del pesce. Un passaggio fondamentale. Con Jacopo mi sono trovato subito bene. Ho avuto un’intesa perfetta. Sono arrivato umilmente come stagista e mi sono trovato a fare il capo-partita. Jacopo mi vedeva come una risorsa. E lo devo ringraziare per aver avuto una nuova visione del pesce che va oltre la sfilettatura del fresco e l’abbattimento.

Di solito uno va in pescheria e cosa chiede? Del pesce vecchio…  è ormai passato di modo il pesce fresco? – Partiamo dal presupposto che per me il pesce fresco non lo batte nessuno. Ci sta consumarlo dopo una maturazione se si vuole concentrarne il gusto.

D’accordo: con la stagionatura scopro nuove intensità e sperimento strutture più complesse. A questo punto la sperimentazione si spingerà a fare dei salumi di verdura? – Non pongo limiti alla sperimentazione. Forse ci si è già arrivati.

E’ semplicemente l’ego dello chef che emerge come nel caso dell’architetto che vuole orgogliosamente costruire la torre più alta? – Dipende da quello che sei. Vuoi dimostrare una particolare abilità nell’uso delle tecniche? Vuoi dimostrare di saper cavalcare l’onda di una moda? O vuoi raggiungere dimensioni del gusto inesplorate? A volte usiamo la tecnica per sentirci forti e migliori di mani meno abili in cucina dimenticando che l’obiettivo è il gusto, non dimostrare le perizie tecniche che ci portano al gusto.

Non si tratta di esibire una tecnica – La tecnica è solo il mezzo per arrivare al gusto. Non me ne faccio un vanto. Preferisco raccontare il gusto. Anche la spiegazione dei miei piatti voglio siano concise e non c’è l’ego dello chef che impone l’ascolto delle tecniche usate in cucina per dimostrare la propria bravura.

Cosa cambia tra stagionare della carne e stagionare del pesce? – Gli enzimi lavorano nello stesso modo nella carne e nel pesce. Mentre nella carne otteniamo morbidezza nel pesce otteniamo maggiore consistenza. Ieri ha assaggiato l’ombrina: la pelle era molto più croccante; l’aromaticità era più ampia a causa della perdita dei liquidi.

Nei salumi l’aggiunta di grasso tagliato più o meno grossolanamente prima o dopo la macinatura della carne è determinante. Nel caso del pesce? – Non si usa aggiungere grasso. Il prodotto che ottengo è quasi sempre, se mi passa la parola, una bresaola.

E’ quindi fondamentale soddisfare edonisticamente i propri clienti in termini sensoriali? Io non vado in uno stellato perché voglio mangiare un piatto buono, e con questo intendo un buon risotto o un buon arrosto. Certo, se un piatto è gradevole al palato meglio. Vado per fare un incontro con lo chef, per conoscere una storia di cucina e lasciarmi emozionare. Se la visione di un piatto è affascinante posso, entro certi limiti, far passare in secondo piano la bontà. Come con il Surrealismo in pittura dove tutto è fatto di irrazionalità e sogno, e penso a Mirò e al suo Il Mangiatore di Sole, la bellezza sta nella fascinazione dell’opera, nella sua capacità di andare oltre la realtà (sur-réalité), non nella bontà della rappresentazione. Quel mangiatore lo disegnerebbe anche un bambino.  Non è tanto la qualità del significante ma il valore di significato che viene trasmesso. – Per me è così. Si possono utilizzare tecniche ma conta sempre il palato. Se impiego dieci giorni per fare una lavorazione ma il cliente dice che un piatto “non è buono” all’assaggio ho fallito.

Come soddisfare il gradimento dei miei clienti visto che vale la regola “ogni testa una preferenza”? Se hai venti coperti hai venti preferenze. – Entra in gioco la bravura dello chef di raggiungere il gradimento di più clienti possibili. Noi portiamo in tavola piatti i cui gusti sono alla portata di tutti. E sono certo si possa ugualmente affascinarli.

In medio stat virtus? – In fondo sì. Giocando con acidità, freschezza e dolcezza posso raggiungere un ampio spettro di persone. Il mio compito è quello di far mangiare le persone. A Il Cappero vengono turisti che vogliono mangiare e vogliono mangiare bene. Non voglio passare tutta la serata a spiegare loro quello che faccio perché se i clienti comprendono l’importanza del mio menu attraverso lo stupore per  le tecniche e il riconoscimento dell’abnegazione nel lavoro della brigata ma non è stata un’esperienza che ha fatto godere il loro palato non ci siamo. Io preferisco mi dicano “è stato buonissimo” senza che ritrovino la tecnica. Se poi ho un cliente gourmet interessato è un piacere spiegare l’arte della cucina ma a Il Cappero si deve poter vivere la serata con un certo disimpegno e mangiare bene comprendendo le linee di pensiero che muovono il nostro lavoro. Tutte le tecniche, è i tecnicismi, sono nostri e solo nostri. Ci vuole una certa dose di leggerezza.

Anche perché un cliente non sceglie il Therasia per la cucina ma per l’hotellerie. Della struttura cosa colpisce: la location, le coccole del personale, i servizi…la sostenibilità. Cook more plants (il vangelo vegetale di Guidara) o la cucina monoproteica di Pagnotto sono dei plus che qualificano un’offerta dopo che si è già scelto di alloggiare al Therasia. – Vivere a Vulcano porta però a pensare in un’ottica sostenibile. Io ho tolto tutte le cotture lunghe dalla carta per una ragione di lotta agli sprechi e per una ragione di amore  per l’isola perché non ha senso tenere acceso un forno molte ore per arrivare a un gusto che si può ottenere con una tecnica alternativa meno invasiva. Da qui l’esigenza di adottare uno stile di cucina molto concreto, sostenibile e puro perché in un’isola ci sono pochi prodotti a disposizione, le consegne sono limitate, non ci si può permettere di sbagliare una preparazione. Quando ho bisogno del pesce chiamo il mio pescatore in mattinata e l’indomani, se tutto va bene, Antonio mi porta il pescato. Oppure se ho il mio giorno libero usciamo in barca assieme e peschiamo. Non è come avere un mercato del pesce cittadino. E non voglio nemmeno appoggiarmi a aziende che fanno commercio all’ingrosso.  Ieri hai mangiato l’ombrina mentre due giorni fa c’era la spigola. La tecnica e la preparazione è la stessa. Può variare il pesce in funzione delle catture.

L’isola porta all’essenziale, con me sfonda una porta aperta vivendo un’isola ancora più piccola come Linosa. – L’isola è pura, semplice e anche la mia visione di cucina non può che essere pura e semplice.

In un’isola quello che c’è deve bastare e deve bastare a lungo perché la sopravvivenza, anche in un’isola vissuta in tempi moderni, conta. – Non avrebbe senso mettere in carta ‘ostriche e foie gras’ a Vulcano. Mentre capperi, triglie di scoglio, cernie e cerniotte sì.

Sa cosa ieri sera è stata una serata magica anche per una circostanza che penso non sia stata studiata né dall’architetto né dall’interior designer né dalla proprietà. Il mio tavolo guardava il mare e dalla scogliera su cui pranzavo si vedeva Lipari nella sua dimensione più ancestrale. La brigata come ben sai cucina alle spalle dei tavoli affacciata sulla sala e per un gioco di luci si proiettava a cucinare sospesa nel mare con una luce vivida che la poneva tra cielo e mare come un’icona luminosa. Senza volerlo questa immagine è espressione di quanto siate sospesi e allo stesso tempo calati nel mare. L’avere poco… – Ti permette di avere tanto

Esattamente. Aprendo l’infinitamente piccolo avessi un microscopio che magnifica il microcosmo troverei un’infinità di mondi che mi aprono possibilità infinite. – Qui ritorniamo all’importanza di avere una mente aperta. Bisogna sapersi adattare perché la vita su un’isola non è facile. Ma nel momento in cui si entra in simbiosi con l’isola si diventa parte di essa. D’inverno vengo più di una volta a Vulcano.  Per rimanere in simbiosi con l’isola, cosa che permette poi di vivere bene sull’isola d’estate. E’ una questione di affiatamento che permette di portare avanti un progetto che rappresenti il mio pensiero e allo stesso tempo l’isola. Così facendo porto avanti il lavoro di Francesco, il nostro pescatore di gambero rosso, di Antonio, il nostro pescatore in apnea, di Marco, il nostro pescatore che porta le alici da Catania. Sono tante le cose che permettono di vivere bene, far vivere l’isola e far percepire al cliente una visione fondamentale integrata.

Ami Vulcano e la Sicilia. Alla Basilicata che ruolo rimane? – Io sono partito da casa per la Sicilia il 28 settembre dopo aver compiuto 18 anni il 25 dello stesso mese. Quella voglia di tornare a casa c’è sempre. Come per tutte le cose che lasci c’è sempre una presenza e un richiamo. In fondo sì è vero: la Basilicata chiede che io ritorni. E’ un territorio ampio che permette di vivere bene e stare bene e, se uno vuole, di fare un’ottima cucina perché non manca nulla. Per ora però voglio concentrarmi sul mio progetto e sul Therasia che mi ha dato la possibilità di mettermi in gioco in un contesto che è unico.

Non si diventa quindi siciliani… – Solo per adozione

Si mantiene una radice lucana? – Le radici sono fondamentali. Non devi mai lasciare le proprie radici.

Si parlava di sostenibilità. Riuscite davvero a fare autoproduzione qui al Therasia? Siete in qualche modo autosufficienti? – Riusciamo a fare autoproduzione perché abbiamo un orto. Non è autosufficiente quando riapriamo la struttura ad Aprile. Non possiamo avere i pomodori maturi all’inizio della primavera.  Però certamente lo siamo all’80%. Per carne e pesce non facciamo produzione propria ma ci appoggiamo ad allevatori e pescatori locali.

Dei vari passaggi formativi nei ristoranti in cui hai lavorato cosa porti nella cucina de Il Cappero e cosa preferisci lasciare fuori? – Non rinnego nulla perché anche le esperienze peggiori che posso avere fatto mi hanno portato ad essere quello che sono. A ventiquattro anni ho un mondo da esplorare. Non sono affatto arrivato. Ma ho voglia di mettermi in gioco.

Sei in un ristorante che ha ottenuto la stella anni fa. Ansia da prestazione e quali pressioni per confermarla? – Più l’ansia di non farcela. Perché so bene il mio valore ma so anche che sono giovane e ho infinite cose da imparare. Non ho paura di riconfermare la stella benché il mio compito sia quello di mantenerla al fine di consolidare il progetto della Proprietà.  Prima che accettassi di guidare la cucina de Il Cappero ho parlato con il direttore e ci siamo detti che questo nuovo progetto avrebbe potuto avere bisogno di tempo perché la brigata era nuova, c’ era un nuovo pensiero culinario grazie alla cucina  monoproteica che poteva disorientare chi a Il Cappero fosse gia stato in passato.

Il passaggio al Noma mi incuriosisce sempre come mi incuriosisce sempre l’esigenza di un foraging molto aggressivo, primitivo nella ricerca  di materie edibili estreme, quasi cinico nella sua esigenza di portare in tavola un cibo che travalica il comune senso del pudore. Certe scelte d’artista d’avanguardia in fondo al Noma sono imposte da un territorio austero e avaro nell’offerta. – Del Noma bisogna saper prendere il metodo e applicarlo alla ricchezza di materia prima che la Sicilia e l’Italia ha mentre il Nord Europa ha meno. Applichiamo il concetto di ossidazione al vino che impieghiamo nella preparazione del coniglio; prendiamo le tecniche di fermentazione che ci possono servire nel raviolo. Se riuscivamo a fare piatti meravigliosi al Noma avoja se ci riusciamo noi in Italia con il ben di Dio che il territorio ci mette a disposizione.  Parti, guarda e porta a casa.

Non avrebbe senso usare a Vulcano una corteccia… – Non sarei me stesso.

Cambi spesso menu? – Per perfezionare un menu ci vuole tempo e risorse economiche. Se cambiassi menu ogni anno non riuscirei a perfezionare i piatti che servo. Ci deve essere un bilanciamento tra i piatti che funzionano, e si mantengono nel menu, e le novità. “Alice e garum” è un piatto che funziona. Non cucino le alici in un altro modo.  Preferisco fare una versione 2.0 e successivamente 4.0. di “Alici e garum” Il crudo di seppia sarà per esempio servito  in una versione 2.0 con pil pil di seppia e verdello siciliano. Alcuni piatti saranno aggiornati e serviti  dalla fine di giugno. Pensa a Bottura: lui fa un menu con i piatti storici.

Ma la genovese di ieri sera nel “Bottone all’uovo” era di gallina vecchia? – Sì, sì. Abbiamo una versione al tonno per i pescetariani ma cambia la consistenza del ripieno. La lunga cottura della carne di gallina vecchia è una cosa; diversa è la cottura lunga del tonno.  Però dobbiamo rispettare le diete e le intolleranze. A volte mi sembra di stare nella cucina di un ospedale.

Quanto si è nudi quando si cucina? Parlando con Guidare ho saputo che sei vestitissimo ai fornelli. – [Ride]…

Tu non mi hai proposto una copertina di Qualitaly magazine nudo e interamente dipinto di verdure…al di là del tuo carattere che è meno estroverso di quello di Guidara quanto riesci ad aprirti ed esporti, a diventare un uomo da palcoscenico? Oppure rimani riservato e lasci all’ospite l’ambizione di scoprirti attraverso i piatti che servi? – Devo essere scoperto a piccole dosi. Non sono estroverso. Non mi metto in mostra. Non sono per natura un personaggio televisivo.

A volte non si accetta l’idea di costruire con pazienza un rapporto. Siamo in una società che fa della velocità una priorità. I consumatori vogliono tutto e subito. Paul Seeeney, economista irlandese, una volta disse, provocatoriamente ma non troppo, che una società che si fonda su sughi pronti, ricette di torte veloci, cene surgelate, e fotocamere istantanee, non può insegnare la pazienza ai suoi giovani. – In fondo rimango un uomo antico. Ho bisogno di tempo per mostrarmi anche in una società che va veloce.

Uno chef dovrebbe forse mostrarsi… – Dovrebbe ma non sono io. Preferisco cucinare. Mi piace cucinare. Se lo chef emerge oltre i piatti si rischia di mangiarsi lo chef prima ancora del  piatto. In realtà l’attenzione dovrebbe essere  tutta sul piatto. Non voglio che lo chef cannibalizzi il suo piatto.

Tu entri nella vita degli altri in punta di piedi, quasi scusandosi della tua presenza. [accenna un sorriso che sembra essere di conferma] Guidara sembra invece essere nato per il palcoscenico e per la televisione. – L’ anno scorso abbiamo girato diverse puntate per Gambero Rosso Channel (per il programma ‘La mia rivoluzione vegetale) e siamo usciti pazzi. Lui sa essere divo. Io molto meno.

Le due anime come convivono? – Come dice il nostro direttore io sono l’anima razionale di Davide. Ma non pensare che la parte razionale sia necessariamente sottomessa alla parte estroversa. Siamo l’uno la forza dell’altro e c’è un comune accordo. Ci comprendiamo a vicenda. Non abbiamo mai litigato e non ci sono stati scontri epocali.

Perché la ragione compensa il fuoco dell’estro? – No, non penso. Ci vuole capacità anche da parte sua per entrare nella mia parte riservata. Per me non è mai facile parlare della mia sfera più privata. Anche se ti dico che dormendo nella stessa stanza e lavorando h 24 con Davide alla fine un’apertura c’è anche da parte mia. Siamo come fratelli. Uno riservato e uno estroverso.

Vale il detto “ quello che ho da dirti passa attraverso le mie mani” per uno chef? O passa dal cuore o dalla mente’? – […ci pensa] … dalla mente. Se passasse dalle mie mani è come se agissi senza pensare.

In cucina quanto spazio può avere la spontaneità? – Una sola volta nella vita ho agito senza pensare e mi è andata molto male. Scherzi a parte. È soggettivo. Io preferisco ragionare bene e se posso, riflettere a lungo prima di agire. Una risposta istintiva che si riveli al tempo stesso saggia non so se sia possibile.

Mi spaventano molto i giovani che… – … pensano?

No! Al contrario. I giovani che riescono a controllare le emozioni al punto da essere  adulti prima del tempo fisiologico della maturità. Essere vinti dal fascino della bellezza di correre a fari spenti nella notte come diceva Battisti e una dimensione essenziale per vivere pienamente la giovinezza…senza poi magari cedere alla tentazione di mettere a rischio la propria sopravvivenza. – La spontaneità ancora conta, almeno in amore. Non siamo così guerrieri e tantomeno Spartani.

Anche in un contesto in cui si cerca giustamente  la perfezione l’errore può capitare – L’errore ci sta e bisogna imparare a gestirlo. Certo, dipende da quante volte si sbaglia, dalla frequenza con cui un errore si ripete e dai motivi per cui lo si commette.

Se dovessi dire ai lettori di Qualitaly Magazine perché venire a Il Cappero? – Sarò banale nella risposta. Perché puoi sperimentare una filosofia di cucina diversa da quella che puoi trovare in un ristorante di Milano o di Roma.

In cosa si differenzia? – Per la filosofia di gestione e di utilizzo delle materie prime. E direi per il gusto, grazie alla ricerca che applichiamo alla sua esaltazione. E per il fatto che si deve mangiare bene. La ricerca per la ricerca esalta solo l’ego del cuoco.

Come ti ho detto questo colpisce. Perché c’è un pensiero filosofico che guida, c’è tecnica, c’è  sperimentazione eppure rimane il comfort del buon cibo che non è un minuendo anche in una cucina d’elite come questa. – Mi fa piacere. Per me conta molto vincere con i piatti anche in un contesto di assoluta bellezza come il nostro. Se vinco solo per l’affaccio sul mare starei sbagliando qualcosa.

Come chef si. Staremmo premiando la bravura di un architetto e di un interior design. Uno chef riservato come te come vive l’apertura della cucina? – La chef table non ti permette di sbagliare.

Ti crea ansia? O la tensione ti carica a tal punto da produrre un risultato migliore? – Ho fatto un anno di chef table a I Tenerumi. Ci si abitua. E ci si abitua al punto da riuscire ad entrare in sintonia con il cliente. Con Davide abbiamo creato una cucina estremamente standardizzata per ridurre al minimo la possibilità di errore. Abbiamo un ricettario che è ricco di particolari e annotazioni che guida con precisione ogni gesto. Ma non per questo viene a mancare la parte romantica della cucina perché è per amore della cucina che si ripete ogni gesto con precisione fino alla noia per rendere una preparazione un atto naturale di sequenze quasi meccaniche seppur non robotizzate.

Una chef table che trovo spesso molto silenziosa. Priva di quel dialogo che è il rumore di fondo di quando cucino con mia madre. – Forse perché la rumorosità e il parlato che ci aspettiamo in una cucina è molto televisivo…o richiede l’intimità del focolare.

Ti dico la verità che alla chef table di Guidara gli ordini ci sono – La cucina deve essere ordinata,  maniacalmente ordinata, per azzerare gli errori. Non c’è molto spazio per un parlato romantico che in qualche modo distrae quando il compito dello chef all’interno della brigata è evitare che un errore accada.

Così però mi sa tanto di catena di montaggio – No. Un cliente paga e non poco. Non sono ammessi errori.

Capisco. Forse sono per umanizzare la cucina stellata. La piccola imperfezione dà un senso di artigianalità che mi salva dall’industrializzazione. – Certo. E all’inizio il bottone di gallina si apriva. Eravamo ancora in una fase di studio. Giuseppe mi arrivava sconsolato dai tavoli. Ricordo ancora il suo  “ chef si è  aperto”. E sistemiamolo. Ci mettiamo l’uovo sopra e non succede nulla perché il gusto quello è. Aperto o chiuso non cambia. Però mi impongo di essere il più perfetto possibile e ora, infatti, il bottone non si apre più. Il cliente deve avere il piatto perfetto.

Certo che così facendo “Ops mi è caduta la crostata di limone” non sarebbe diventata un piatto famoso – C’è un bellissimo racconto in quel piatto. Ma io non voglio raccontare. Voglio dimostrare.

Raspi, Aglio e Pomodoro è un piatto a te caro… – Con questo piatto ho partecipato a “Primo Piatto dei Campi 2022”, iniziativa siglata da 50 Top Italy e Pastificio dei Campi. Ci vogliono mezze maniche rigate, pomodori del Piennolo fermentati con cui fare la salsa, crema di aglio ossidata. Si cuoce la pasta al dente e si compone il piatto con le mezze maniche, la salsa di pomodoro arrosto, la crema di aglio ossidata. Si completa con olio ai raspi e cime di basilico.

Si gioca tutto sull’ossidazione dell’aglio e sulla preparazione dell’olio ai raspi. – In realtà la preparazione della salsa di pomodoro è un passaggio importante. Certamente colpisce l’uso dell’aglio e la produzione dell’olio ai raspi.

Utilizzi l’aglio che dà normalmente solo gusto a una ricetta come ingrediente principale. La filosofia di Guidara si sente tutta. – Con tecniche opportune e i giusti tempi anche l’aglio può esprimersi totalmente. Questo è uno dei tanti insegnamenti di Guidara. Quando pensi a una tecnica pensa a cosa vuoi ottenere. Finalizza la tecnica al gusto.

Ci sveli qualche segreto di questo piatto? – Si devono ossidare le teste d’aglio per 20 giorni a 45°C per poi frullarle con acqua e sale fino ad ottenere una crema liscia. I pomodori del Piennolo sono fermentati in salamoia in comodi barattoli per venti giorni. Preparare la salsa non è complicato. Bastono piccole attenzioni: tagliare i pomodori fermentati e farli macerare in olio, aglio e basilico; passarli velocemente sulla brace calda per poi cuocerli al forno a media temperatura; frullare i pomodori così preparati avendo l’accortezza di fare restringere la salsa sulla fiamma viva.

Per l’olio ai raspi? – Si tagliano i raspi dei pomodori e si mettono sottovuoto con olio evo. Si cuoce a 85° per un’ora. Si raffredda e si filtra.

Un piatto che sottrae tutto il superfluo per esaltare il gusto. – Un piatto che ricerca la purezza del prodotto. Ossidazioni e fermentazioni estraggono la verità gustativa degli ingredienti

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Gallina e Uovo entra a far parte del tuo nuovo menu – È un piatto che richiede una lunga preparazione ma che ha note sensoriali facilmente comprensibili.

La Genovese richiede i suoi tempi – Per definizione. Si deve disossare la gallina e tostare leggermente la carne in una padella rovente.  Poi si sbucciano le cipolle, si tagliano molto sottili e si stufano in un rondeau. A questo punto si aggiunge la carne e si sfuma con vino bianco. Poi si bagna con il fondo, si aggiunge la cannella e si cuoce per dieci ore sulla brace. Non esageriamo con la cannella, a meta cottura la togliamo, perché già la brace dà note affumicate intense.

Una Genovese con un accento gourmet – Un twist di gusto ma senza stravolgimenti.

La pasta di solo albume stravolge in parte una preparazione che ha radici profonde nella cucina popolare. – Non ci sono tuorli nell’impasto. Solo albumi farina 00 e semola di grano duro in un rapporto di due a uno. L’impasto viene lasciato a riposare in frigorifero almeno un giorno.

Tuorlo coagulato… – È una pasta ripiena in cui il tuorlo coagulato la riveste. Per preparare i tuorli  dobbiamo riporli sotto sale e zucchero per 6/7 ore. Successivamente li sciacquiamo e li lasciamo asciugare a 65° per 48 ore.  Si affumicano e si grattugiano fino a ricoprire la pasta.

Burro fermentato, glassa di aceto e lampone… – Il burro utilizzato nella ricetta è lasciato fermentare in una salamoia di acqua e sale per venti giorni. La glassa di aceto al lampone  è aromatica grazie al ginepro, il lampone, la salsa di soia e un fondo di pollo ristretto. Lo zenzero dà note piccanti.