L’oste bello – di Gianluca Donadini
Incontro Giacomo Pavesi, miglior oste d’Italia 2019 secondo Slow Food, nella Corte della Faggiola a Podenzano in Provincia di Piacenza. La primavera ormai è calda. Le rose, splendide, sono in fiore.
È che la strada proprio non la trovo subito. Immerso nei fiori del Castello di Paderna per la fiera I Frutti della Terra, dove le rose la fanno da padrone in un mondo agricolo espressione di una ricca biodiversità grazie a virtuosi custodi che allevano varietà profumate e rare, trovo poi difficile districarmi tra campi e coltivi che dividono Pontenure da Podenzano. La Pianura Padana, liscia come l’olio, sa essere un reticolo di strade larghe poco più della mia auto, rette che tagliano i campi accostate a fossi senza protezione, alberi che si fanno vedette, restringimenti e curve che piegano nel rispetto delle proprietà, sparsi raggi di sole che, come diceva Gianni Celati, portano un brillio che mi dà lievi stralunamenti. Benché sia poco più che primavera in queste pazze stagioni di un età della Terra che ci dà i benefici del disgelo invece delle glaciazioni, l’orizzonte è diafano con la sua bava di caldo che scompone le case in lontananza. Podenzano non è una meta turistica ad eccezione della festa del pomodoro che qui è prezioso, passatemi la rima, più dell’oro. Ci si arriva in fretta a Podenzano passato lo stadio di Piacenza e io ci vado dopo le mie lezioni in Università per comperare il Grana allo spaccio Aurora. Poi Giorgia, la mia collega con cui faccio ricerca in Cattolica, abita lì vicino ed è comodo, quando l’Università è chiusa, fare il punto dei nostri lavori direttamente a casa.
Siamo nella Corte della Faggiola. Qui nasce nel 1928 l’azienda agricola sperimentale Vittorio Tadini che il Conte Tadini destina a attività di servizio per le Cattedre Ambulanti di Agricoltura avviate nel piacentino nei primi del Novecento. Dal 2003 l’azienda agricola diventa centro di formazione e sperimentazione per l’innovazione agricola accreditata dalla Regione Emilia Romagna. Oltrepassandone il cancello si entra in un mondo rurale che ricorda le atmosfere cinematografiche di Novecento. La Corte aperta lascia spazi ampi dove è ancora facile immaginare la presenza di campari, bergamini, casari, contadini, cavallanti, campagnoni, famigli, manzolai, stallieri, fa-tutto e mietitori. E in un cielo azzurro terso, che non distrae per l’assenza dei giochi delle nuvole, sono i trattori e le vele dei grandi ombrelloni bianchi che proteggono chi pranza all’Ostreria Pavesi a rompere la linearità degli edifici che cingono, grazie ad un recinto aperto, la Corte.
Osteria o Ostreria: il dubbio che loghi e insegne siano affetti da un refuso di stampa o che un refuso di stampa sia stata l’occasione colta per dare identità ad un outlet della ristorazione è un rebus difficile da risolvere finché non scopro che i Pavesi che gestiscono l’osteria, pardon l’Ostreria, sono tre di cinque fratelli che della ristorazione hanno fatto una scelta di vita. Chi ai fornelli e alla guida della brigata; chi in sala a far da padrone di casa; chi nel laboratorio di sughi e conserve facendosi artefice di giardiniere e mostarde.
Così Giuseppe detto Pepe, Camillo e Giacomo sono alla convinta ricerca dei prodotti più nobili del territorio, rincorrono vini naturali per una ricca cantina, stagionano salumi e ripropongono antiche ricette piacentine con l’occhio aperto di chi crede nella filiera corta evitandone i fastidi, prima di tutto culturali, di un uso talebano. L’Oste bello è Giacomo. Lui è l’uomo che con la parola, i modi fatti di gesti che includono, il cordiale abbraccio di un padrone di casa sicuro e per nulla timoroso di deludere l’ospite ci introduce nell’Ostreria che per lui è casa. Se lo si sente parlare e si chiudono gli occhi Giacomo ha la stessa velocità di pensiero di Gianni Brera e la fisicità di Bernardo Bertolucci. Si passa dal fioretto più elegante che disegna sottili ragionamenti alla libera parola che nella campagna ha forme ruspanti e vernacolari. Gran paroliere, potrebbe essere lui l’autore de Il Corpo della ragassa, l’uomo di sponda come amava definirsi Brera, o il fine giocoliere di immagini che fissa il tempo della campagna piacentina con una macchina da presa.
Giacomo è tutt’altro che fragile, la fisicità si impone sia nel corpo sia nella personalità, eppure è elegante, dotato di stile ma non manierato. Intelligente, a volte astuto ma non opportunista, tecnico e combattivo mai arroccato e catenacciaro. L’Oste Bello è un abile rifinitore. Non fa melina. Si disimpegna e sa essere cursore. Cosi entra in sintonia con l’avventore che siede per la prima volta ad un tavolo dell’Ostreria o riallaccia quel filo mai perso con chi, ai tavoli, è un habitué.
Chi è Giacomo Pavesi? – Sono un medico mancato. Mio padre era medico pur avendo avuto un ristorante importante sui colli per una decina d’anni. Faceva cucina gourmet e serviva i primi risotti fragola e Champagne negli anni Settanta. Il mio primo anno di medicina non andò benissimo. Un amico mi disse che c’era una nuova Università in Piemonte grazie alla quale si viaggiava, si mangiava, si scriveva. Non potevo rinunciare ai viaggi e al cibo.
Sei un figlio di Pollenzo? – SÌ. Capisco subito che invece di fare medicina posso frequentare l’Università di Scienze Gastronomiche, viaggiare, divertirmi. Quando stavo finendo Pollenzo un mio amico mi avvisa di avere un posto molto bello che ha già una cucina professionale e delle camere per poter accogliere alcuni ospiti e che, se voglio, posso cominciare a lavorare l’estate stessa. Coincidenza volle che mio fratello Pepe avesse appena finito la Scuola di Alta Cucina di Gualtiero Marchesi a Colorno.
Con che idea di cucina iniziate? – Una cucina vera, della Bassa Piacentina, a Besenzone, non lontano da Busseto, terra di Culatello. Il locale si chiamava Le Colombaie e si lavorava solo nei week end.
Come è andata? – Talmente bene che un imprenditore piacentino ci convinse a ritornare in città. Apriamo l’Osteria Santo Stefano. Dal primo all’ultimo giorno sempre pieno. Io esco dal locale dopo 7 anni.
Che tipo di clientela avevate? – Di tutto. Era un’osteria perfetta. A Podenzano invece ho una clientela distante dal territorio.
Beh perché hai un nome – Ma no… Boh?!? Forse ce l’ho.
Altrimenti chi passerebbe mai da Gariga di Podenzano? – Ma va là. (Calcando con la voce sul “ma” e sul “là” per incredulità ed evidenziare il dissenso). Poi sette anni fa abbiamo aperto in questa corte abbandonata da Dio, desolata da Dio. Chiunque fosse venuto alla Faggiola aveva fallito, compresa l’ultima scuola di cucina. La proprietà c’è anche se ti può sembrare che parte della Corte sia abbandonata: Coldiretti, Comune, Provincia e Consorzi vari. Pago un affitto reale, e salato, ma ho avuto la fortuna di trovare una cucina professionale già allestita e perfettamente funzionante. Non ho dovuto fare grandi lavori. Il locale è in sé austero, direi essenziale. L’Ostreria va bene. Abbiamo la nostra clientela.
Con quale idea sei partito? Uscendo da Pollenzo ti sarai portato con te l’importanza delle Arche del gusto, il desiderio di riscoprire risorse legate al territorio e di valorizzarle per salvaguardare la biodiversità agroalimentare pur rimanendo aperto ad esplorare ovunque nel mondo abbiano messo radici l’agricoltura familiare e di piccola scala. – Le aperture sono importanti. Ci si apre per poter meglio valorizzare il territorio locale.
… È curioso come la globalizzazione alimentare rafforzi la ricerca della diversità e ci porti a riscoprire le tradizioni locali. – Il cibo è genius loci per eccellenza. Pensa alla coppa piacentina, all’Ortrugo, ai tortelli con la coda, tutti cibi capaci di narrare il territorio pur avendo il mondo a portata di mano.
Cosa vuoi dare in fondo ai tuoi avventori? – Voglio dare quello che vorrei trovare io se fossi seduto a tavola e cioè un po’ di sincerità nel piatto. Bisogna dare umanità e bellezza. La bellezza deve essere nella vita l’obiettivo di tutti. [Poi si interrompe, guarda verso i tavoli e si perde nella corte dove giocano due bimbi] Non è così semplice perché un conto è farlo con un tavolo, un conto è farlo sempre con tutti i tavoli tutti i giorni, a pranzo e cena e per tutti.
Costa fatica la bellezza e non è mai gratuita. – La bellezza costa fatica, è vero. Eppure mi rendo conto che il giorno in cui sono felice e ricerco la bellezza in ogni parola e in ogni mio gesto ai tavoli vien da sé che il cliente goda.
Bellezza, sincerità e trasparenza… – La trasparenza in termini di approvvigionamento, origine, metodi di coltivazione e trasformazione è una forma di rispetto per i consumatori. Dietro a un piatto non c’è solo il sapere e l’esperienza di uno chef, l’idea di come costruire un piatto. Dietro a un piatto ci sono produttori, una catena di distribuzione, lo stoccaggio, la lavorazione delle materie prime. Per fare in modo che il servizio di ristorazione sia di qualità ci deve essere una struttura ordinata alle spalle della cucina. Questa struttura si crea quando c’è conoscenza della materia prima, c’è fiducia, amicizia, in un certo senso dell’affetto per chi coltiva ed alleva. Chi trasforma la materia prima deve conoscerla bene.
In fondo tu dai voce ad attori muti; ti prendi la responsabilità di portare in tavola contadini e allevatori aprendo un sipario sul territorio che diversamente rimarrebbe ignoto ai più. È come a teatro: le sarte, gli elettricisti, i truccatori non vanno in scena ma il cast di attori dà loro l’applauso della platea. – Questa è una grande responsabilità come in ogni affidamento. Ma, ti confesso, a volte mi sento dire “Giacomo, cambi poco i piatti della tua carta…” come se non si capisse l’importanza di lavorare a lungo sullo stesso piatto, facendo una continua ricerca che lo perfezioni. Mantenere in carta dei piatti capaci di trasmettere identità ed esaltare queste voci diversamente mute perché affinati nel tempo è sinonimo di qualità.
Lo guardo cercando di seguire il veloce filo di un ragionamento che esce come un fiume in piena. Giacomo è un pensatore libero, non lo puoi fermare. Ha ritmo e passo. Conosce l’arte della parola. Sa come emozionare. Gestisce pause e silenzi. Crea la giusta sorpresa e, allo stesso tempo, sa tranquillizzare.
Se vado da Bottura e non trovo il Parmigiano in cinque consistenze o da Santini e non c’è in carta il tortello rimango deluso… – Diventi scemo! Ti sei fatto tanti chilometri e poi non trovi i piatti che ti aspetti di trovare. La carta deve avere una struttura fatta di piatti ben riconoscibile perché Il cliente vuole provare i piatti che caratterizzano nel suo immaginario la cucina. Altrimenti perdono dei punti di riferimento. Da noi, ad esempio, vogliono la Bomba di Riso e la Bomba di riso è lì che li aspetta senza tradire un desiderio tanto atteso.
Cambiare pochi piatti è il tuo punto di forza. – Facciamo delle rotazioni esclusivamente con i fuori menu. In questo modo creiamo un forte legame con i fornitori e diventiamo riconoscibili per l’avventore.
Una volta che lavori con i maiali di Zavoli [Zavoli è l’allevatore di maiali di fiducia dell’Ostreria] … – Instauri con Zavoli un rapporto che va al di là del commerciale. C’è fiducia. Noi comperiamo la loro carne tutto l’anno. C’è rapporto saldo. Impariamo l’uno dall’altro. Si cresce assieme tra professionisti.
Un vantaggio anche per la cucina… – La brigata impara sempre meglio come cucinare, preparare, conservare quelle materie prime, servirle, usare tutti i ritagli. Zavoli migliora i suoi maiali. E Il piatto cresce.
Un continuo perfezionamento… – …che non va confuso con un esercizio stucchevole e manieristico. È cura, precisione, eleganza. Come disse il grande Ugo Alciati alla domanda sul perché i suoi plin fossero così buoni, e non so se lo cito bene alla lettera, ma è il concetto che conta, “sono 30 o forse 40 anni che ci lavoro e che lo facciamo”. Poi ci sono locali che ogni mese cambiano menù e ne vedi le conseguenze nel piatto.
Una ricetta è quindi un concetto dinamico. Si lega alla storia e cambia nel tempo. – La tradizione si evolve. Pensa al ripieno degli Alciati…a come si sia evoluto per cercare di migliorare, di rendere contemporaneo il plin. Pensa al miglioramento dei plin ottenuti lavorando per anni sulla forma, le uova, l’impasto.
Il ripieno è passato dalla tradizione della nonna con tre arrosti di vitello, maiale e coniglio a soli due arrosti con coscia e stinco di vitello, salsiccia e carne di maiale. Aglio e cipolla sono scomparsi. Sono aumentate le dimensioni e si è invertito il rapporto tra pasta e ripieno. – Esatto. Si può essere rivoluzionari facendo al meglio il consueto, diceva Guido Alciati.
Il futuro è della trattoria o dello stellato? – Trattoria… Osteria … Stellato: Oggi lo stellato andrà avanti ancora dieci anni, forse venti. Il futuro è delle osterie, quelle vere.
Non solo per una questione di costi. – Ma no. Oggi l’Osteria Francescana ha aperto una strada pericolosissima: quella dell’osteria senza oste. L’osteria non deve per forza essere economica. La mia non lo è in senso stretto. Se hai materia prima di nicchia e ricercata con i vini ci sono dei costi. Deve però avere un oste.
Economica è difficile. – Una volta forse si poteva fare osteria col gallo del vicino, la farina del vicino, il vino sfuso buono prodotto due colline più in là e risparmiare qualcosa. Oggi un’osteria è economica solo se la materia prima acquistata è di bassa qualità. Se la materia prima è di qualità, economica-economica non può essere. Ma dalle osterie con la chiocciola, e quindi di qualità, a spendere trecento euro di un tre stelle c’è sempre un bel margine.
Ci sono però stellati che dopo il covid hanno cercato di democraticizzare il fine dining rendendolo accessibile ai più con una carta di piatti a 15-20 euro a portata secondo un tentativo di avvicinare i giovani che hanno un minor potere di spesa. Temo però che la politica basata su prezzi più popolari dipenda più dal fatto che ci si è resi conto che non tutti possono spendere 350 euro nell’attuale situazione economica e di quanto sia difficile fidelizzare un cliente se questi deve spendere cifre così alte. – Il caso di Bottura è interessante. Apre un’osteria ‘francescana’ e va in giro per il mondo ad aprire osterie Gucci. (Mi guarda con il suo viso che già ha la risposta in una sospensione del recitato che vuole creare desiderio grazie all’attesa. Poi riprende). Vorrei capire cosa centri l’osteria con Gucci. Gucci è lusso.
Il lusso è fasto e magnificenza e, se ci rifacciamo al significato di luxus per i Romani, anche sontuosità eccessiva, sregolata e superflua. Concetti questi che sembrano distanti dall’idea di osteria. – Gucci è esclusività. Avere una borsa di Gucci vuol dire migliaia di euro da spendere. Ci azzecca poco con un’osteria.
Certo – Andare ad un evento con un vestito Gucci ha i suoi costi
Romito è con Bulgari che proporne innovative esperienze del lusso con i prodotti di gioielleria, orologeria, profumeria, pelletteria e l’industria alberghiera. – Si, anche se è diverso. Romito non ha la pretesa di aprire un’Osteria Bulgari. Bottura sì. Sarebbe interessante capire cos’è l’osteria oggi.
Questa è la domanda. Cos’è l’osteria oggi? – Per me l’osteria deve avere un oste. E bravo. Per questo è difficile aprire un’osteria per un imprenditore. Puoi fare buona impresa se hai capacità imprenditoriali e savoir faire in diversi settori della ristorazione ad esclusione dell’osteria. Se non c’è l’oste bravo c’è poco da fare.
Che cos’è un oste? – L’oste è il padrone di casa o ne fa le veci. Collega la cucina coi produttori, l’avventore con lo staff di sala e con la brigata. Comunica i produttori e comunica la cucina. Conosce il vino. Conosce e riconosce il cliente abituale e capisce l’avventore nuovo. E’ il punto di riferimento di una osteria.
Ma è più facile per un ragazzo imparare quali sono i canoni di giudizio della guida Michelin e quindi tentare di fare una cucina stellata oppure riprendere la figura dell’oste? – Molto più facile fare cucina stellata
Come se nel primo caso ci fosse una sorta di protocollo scritto che porta alla stella e basti attenervisi, seppur ci vogliano qualità tecniche non indifferenti per avere successo.. – L’oste deve essere figlio di un territorio. E questione di radici, di appartenenza. Nell’osteria si mangia il territorio. Bisogna capire bene però cosa deve essere il territorio. A Piacenza il territorio è solo Piacenza? la provincia? le province di confine?
Posso ad esempio fare un’ osteria lucana a Piacenza oppure una trattoria lucana sta stretta a Piacenza? – Secondo me sta stretta. Bisogna essere collegati al territorio dove si è geograficamente messi.
Ha quindi ragione Marco Bolasco quando dice che mangiare fuori, e in particolare in una trattoria, significa mangiare anche un pezzo di cultura e della società del territorio in cui ci si trova. – L’osteria come la trattoria avvicina le persone ai prodotti locali e al luogo dove nascono. Poi, per carità, se il cuoco è del Sud, ci sono legami stretti col Sud ci può anche stare. Ogni regola ha le sue eccezioni. Secondo me un’alleanza stretta con il territorio è meglio che ci sia. In fondo bisogna ricercare la bellezza e la qualità degli ingredienti. “Buono pulito e giusto”, il famoso refrain di Carlo Pietrini rimane per me un riferimento. Che un cibo debba essere buono non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ambiente e sostenibilità ambientale contano così come il benessere animale e la retribuzione corretta dei dipendenti.
Il cibo deve essere un piacere ma mangiare è un atto agricolo. – Cibi di qualità nel rispetto dell’ambiente e delle tradizioni locali favorendo la biodiversità e l’agricoltura equa e sostenibile.
Nel tuo menù c’è spazio per le patate di Mareto, le zucche bertine, il salame, la coppa e la pancetta DOP piacentini, la mariola. Prosciutti, culatelli, suini e selvaggina sono di Parma o della Romagna. La burrata è però Pugliese mentre la ricotta salata è Molisana. Hai il maiale mangaliza di origini ungheresi. Le alici del Cantabrico e il maiale iberico ‘Bellota’ che oltrepassano i confini nazionali. – Le nostre radici sono piacentine con qualche distinguo. Per un’offerta di qualità bisogna allargare il raggio d’approvvigionamento. Il chilometro zero conta fino a un certo punto. Non deve essere un dogma. L’importante è crearsi una rete di fornitori virtuosi che aiutino a far sì che virtuosa sia l’osteria.
Il vostro menù è quindi ‘soratut roba de Piasensa’? – Abbiamo pisarei e faśö, i tortelli con la coda, la cervella fritta, la bomba di riso che sono ricette della tradizione piacentina. Dalla Liguria arriva il Cappon Magro e il Brandacujun. Altre ricette si allontanano di più dal territorio piacentino.
In fondo le valli di Piacenza, seppur isolate, hanno da sempre un legame commerciale con la Liguria che apre scambi e passaggi. – Piacenza è incuneata tra Lombardia e Liguria e confina brevemente col Piemonte. Non può che avere una cucina di fusione. Gli scambi commerciali con la Liguria, pensa alla via del sale, sono sempre stati importanti malgrado l’Appennino sia impervio e isoli. I piacentini hanno fatto tesoro di alcuni piatti liguri diffondendoli lungo il versante della loro montagna.
Devi andare di persona da un allevatore o da un contadino oppure potresti lavorare con un distributore? – Devo andarci di persona ma se ho distributori bravi che possono fare un bel lavoro in mia vece nessuno mi vieta di appoggiarmi a loro. In realtà comperiamo la maggior parte delle nostre materie prima direttamente da pochissimi produttori. Però ti dico: adesso che mi ha abbandonato il nostro allevatore di piccioni di fiducia mi sto appoggiando a distributori nazionali, che, devo ammettere, mi offrono carni di ottima qualità.
E con i vini? – Compero il vino dai distributori quando provengono da zone di nicchia o ne ordino poche bottiglie. In questi casi non è così facile gestire la presenza di un Pavesi sul territorio e ottimizzare individualmente gli ordini. E’ ovvio che per un bel racconto è meglio avere un fornitore che è produttore agricolo diretto. Tieni presente una cosa però. Si parla tanto di produttori di nicchia e l’osteria fattura 50 milioni di euro l’anno senza che nessuno dica chi è il cuoco, chi sono i produttori e come facciano a fatturare tanto. Qualità, qualità, qualità, servizio, servizio, servizio, referenza al tavolo: questa deve essere una trattoria. Il segreto è fare in modo che il cliente abbia prodotti superiori per qualità.
Poi scoppia a ridere. Giacomo è gioviale, aperto, sicuro. Malgrado in ogni abitazione la privacy conti, una volta entrati nella casa dell’oste, si vive la vita di chi vi abita in tutti i suoi flussi. E se all’Ostreria, che è casa, c’è un produttore di vini seduto alla tavola che degusta una coppa piacentina stagionata mentre si assaggiano le sue bottiglie capita che ci si trovi nella contrattazione delle etichette che arricchiranno la carta dei vini e si partecipi all’assaggio. E capita che l’oste, da bravo padrone di casa, debba tenere tutto sotto controllo e sembri distratto dalle persone che siedono ad altri tavoli.
Noo! Già ti faccio lo scontone famiglia. Scontone! Ti faccio l’ordine, sei in carta, cosa vuoi di più? [L’oste passa dalle contrattazioni dell’ufficio acquisti al tavolo filosofico in cui ammalia con l’antropologia del cibo]
Dove va un oste a mangiare fuori? – Ti sembrerà strano che pur avendo poco tempo io vada spesso a mangiare fuori. Provo esperienze nuove. Provo ristorazioni diverse a tutti i livelli che siano il fast-food, la trattoria o l’alta ristorazione stellata. Il problema dell’oste è che è difficile staccare, chiudere la sfera della ristorazione e aprire quella privata e la vita familiare è messa a dura prova. Mia moglie giustamente si lamenta che siamo sempre connessi con il lavoro.
Tua moglie lavora con te? – Solitamente chi fa il ristoratore ha la famiglia che lavora con lui. Non è il mio caso. Io lavoro a Podenzano ma vivo in città. Ho tre figli. Mia moglie si occupa di loro. Il martedì quando non lavoro chiudo completamente la sfera della ristorazione e provo ad aprirne un’altra. Ci provo, con i miei limiti. Poi mi capita sempre una cena qua e una cena là, una degustazione per gli assaggi, un produttore che vuole vederti e ne approfitti nel giorno libero. Ci vado con mia moglie così la porto fuori. La sfera della ristorazione a volte si fonde con quella familiare. Ma la vita familiare è messa a dura prova.
Se non uscissi a mangiare ti mancherebbe il confronto con la cucina degli altri cuochi. – Si, anche. Ma a me piace essere servito e riverito come io faccio con i miei ospiti tutti i giorni. Mi piace la persona che mi versa il vino, che mi porta un piatto. Mi piace pagare il conto per queste forme di cortesia.
Sempre che lo si paghi volentieri perché la persona che ti serve a tavola si è dimostrata empatica. A volte non è così. – La ristorazione sta soffrendo molto proprio per la qualità, spesso scadente, del servizio a tavola. Per questo ci vuole un oste e possibilmente… bello. La bellezza ci fa stare subito meglio.